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Corte di Cassazione 04/02/2014

Guida in stato di ebbrezza: il lavoro di pubblica utilità estingue il reato

(Cass. Pen., sez. I, 17 dicembre 2013, n. 50909)

Il lavoro di pubblica utilità estingue il reato di ebbrezza anche se l'attività  svolta non rientra tra quelle previste in via prioritaria dall'art. 186 co. 9bis c.d.s., e cioè attività da svolgersi nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale.

 

In particolare la cassazione con sentenza 17 dicembre 2013, n. 50909 ritiene che  la prestazione non retribuita è comunque svolta a favore della collettività, ed anche se non inerente al settore della sicurezza e dell'educazione stradale, la stessa deve ritenersi rientrante nel novero dei lavori di pubblica utilità e tale da poter fare conseguire gli effetti estintivi del reato.

 

Sarebbe irragionevole  ritenere che il lavoro di pubblica utilità comunque svolto con diligenza, non possa fare godere all'interessato i vantaggi ricollegati al positivo svolgimento di tale incombente, sol perché fatto svolgere al di fuori del campo indicato in via prioritario nella previsione normativa.

 

Tale modus opinandi si profila assolutamente vincolante, se solo si consideri la portata e la finalità del lavoro sostitutivo, così come la Corte Costituzionale ha avuto cura di tratteggiarlo, come misura "paradentiva", costituente un segno ed un'apertura fiduciaria verso i condannati (sent. 157/2010), esaltandone le finalità rieducative per il recupero sociale del soggetto, perseguito attraverso la scelta di lavoro a titolo gratuito dell'interessato a favore della collettività offesa, quale evidente segno di riconciliazione sociale.

 

È stato scritto nella recente sentenza n. 179/2013 sempre della Corte Costituzionale, a proposito del lavoro di pubblica utilità, che "la finalità rieducativa della pena, stabilita dall'art. 27, co. 3, Cost, deve riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione penitenziaria. Quest'ultima deve prevedere modalità e percorsi idonei a realizzare l'emenda e la risocializzazione del condannato, secondo scelte del legislatore, le quali, pur nella loro varietà tipologica e nella loro modificabilità nel tempo, devono convergere nella valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato e dalle istituzioni per conseguire il fine costituzionalmente sancito della rieducazione (sentenza n. 79/2007). Tali principi, benché riferiti alla legislazione penitenziaria, ben si adattano anche a fattispecie come quelle in esame, nelle quali le finalità rieducative della pena e il recupero sociale del soggetto sono particolarmente accentuati e sono perseguiti mediante la volontaria prestazione di attività non retribuita a favore della collettività".

 

(Nota di Luigi Del Giudice)

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

Sentenza 17 dicembre 2013, n. 50909

Ritenuto in fatto

 

A seguito di intervenuta esecuzione della pena sostituita con lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità consistito in mansioni di supporto all'archivio della Provincia, con ordinanza del 5.12.2012 il gip del tribunale di Piacenza rigettava l'istanza formulata da V.F. diretta ad ottenere l’estinzione del reato di cui all'art. 186 cod. strad., osservando che l'attività da lui svolta non rientrava tra quelle previste in via prioritaria dall'art. 186 c. 9 bis cod. strad. cioè attività da svolgersi nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale. Con la stessa ordinanza il gip dava mandato al P.M. di verificare in concreto se il V. avesse svolto lavoro di pubblica utilità nel settore della sicurezza e dell'educazione stradale, così come era stato previsto con la sentenza del gip del Tribunale di Piacenza 22.5.2012.

 

Avverso tale decisione interponeva ricorso il PM presso il tribunale di Piacenza per dedurre erronea applicazione della legge penale, posto che il V. risultava essere stato inserito presso il centro per l'impiego di Piacenza, svolgendo mansioni di supporto all'archivio. Quindi, secondo il P.M. ricorrente, poiché la prestazione non retribuita doveva essere ritenuta a favore della collettività, anche se non inerente al settore della sicurezza e dell'educazione stradale, la stessa doveva ritenersi rientrante nel novero dei lavori di pubblica utilità e tale da poter fare conseguire gli effetti estintivi del reato.
Il Procuratore Generale ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.



Il problema di diritto che questa Corte deve affrontare e risolvere è se il reato c.d. "stradale", previsto dal d.lgs 30.4.1992, n. 285, debba essere dichiarato comunque estinto se la pena pecuniaria o detentiva inflitta sia stata sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità consistente in attività non retribuita a favore della collettività svolto dal condannato in un settore diverso da quello della sicurezza e dell'educazione stradale.
Il caso del V. è emblematico, visto che il medesimo risulta dagli atti essere stato inviato all'ente Provincia di Piacenza, dove venne collocato al centro per l'impiego, con mansioni di supporto all'archivio, rientrante nel settore Welfare, lavoro e formazione professionale dell'amministrazione provinciale, dal 20.8.2011 e fino al 4.9.2012.

 

La decisione del giudice a quo di rigetto dell'istanza di estinzione del reato per avere l'interessato svolto il lavoro di pubblica utilità, non rientrante tra quelli previsti in via prioritaria dall'art. 186 c. 9 bis Cod. strada, non è corretta, perché frutto di interpretazione eccessivamente rigida, che risulta non conforme alla voluntas legis.

 

La clausola contenuta al c. 9 bis dell'art. 186 decreto menzionato nell'inciso "in via prioritaria", deve sicuramente essere letta nel senso che il legislatore ha indicato una opzione di maggiore gradimento per il lavoro di pubblica utilità da svolgere nel campo "della sicurezza e dell'educazione stradale", a carattere però non esclusivo, lasciando cioè aperta la strada a inserimenti lavorativi in altri ambiti di pubblica utilità.
Non può essere sottovalutato che non risulta affatto che il V. abbia scelto il settore in cui svolgere il lavoro sostitutivo, essendo stato avviato alla amministrazione provinciale, dove venne collocato nel settore che necessitava maggiormente di apporto, di talché non può essere a lui imputato di aver svolto il lavoro sostitutivo in un campo diverso da quello "preferito" dal legislatore, in quanto ritenuto maggiormente finalizzato alla rieducazione del condannato. Come sottolineato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza 43/2013, la norma in discorso rinvia per la disciplina della misura, all'art. 54 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, con conseguente applicabilità del decreto ministeriale 26 marzo 2001, adottato dal Ministro della giustizia che prevede che sia il giudice ad individuare, con la sentenza di condanna, il tipo di attività, nonché l'amministrazione, l'ente o l'organizzazione presso il quale questa deve essere svolta, avvalendosi dell'elenco degli enti convenzionati (art. 3); il medesimo decreto ministeriale stabilisce altresì, che le apposite convenzioni, stipulate dagli enti interessati con il Ministro della giustizia o, per sua delega, con il presidente del tribunale, debbano indicare "specificamente le attività in cui può consistere il lavoro di pubblica utilità", oltre ai soggetti incaricati di coordinare la prestazione lavorativa del condannato e di impartire a quest'ultimo le relative istruzioni (art. 2). Sarebbe quindi del tutto irragionevole fare ricadere sul condannato le conseguenze di opzioni a lui non riportabili, così come altrettanto irragionevole sarebbe ritenere che il lavoro di pubblica utilità comunque svolto con diligenza, non possa fare godere all'interessato i vantaggi ricollegati al positivo svolgimento di tale incombente, sol perché fatto svolgere al di fuori del campo indicato in via prioritario nella previsione normativa.

 

Tale modus opinandi si profila assolutamente vincolante, se solo si consideri la portata e la finalità del lavoro sostitutivo, così come la Corte Costituzionale ha avuto cura di tratteggiarlo, come misura "paradentiva", costituente un segno ed un'apertura fiduciaria verso i condannati (sent. 157/2010), esaltandone le finalità rieducative per il recupero sociale del soggetto, perseguito attraverso la scelta di lavoro a titolo gratuito dell'interessato a favore della collettività offesa, quale evidente segno di riconciliazione sociale. È stato scritto nella recente sentenza n. 179/2013 sempre della Corte Costituzionale, a proposito del lavoro di pubblica utilità, che "la finalità rieducativa della pena, stabilita dall'art. 27, terzo comma, Cost, deve riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione penitenziaria. Quest'ultima deve prevedere modalità e percorsi idonei a realizzare l'emenda e la risocializzazione del condannato, secondo scelte del legislatore, le quali, pur nella loro varietà tipologica e nella loro modificabilità nel tempo, devono convergere nella valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato e dalle istituzioni per conseguire il fine costituzionalmente sancito della rieducazione (sentenza n. 79 del 2007). Tali principi, benché riferiti alla legislazione penitenziaria, ben si adattano anche a fattispecie come quelle in esame, nelle quali le finalità rieducative della pena e il recupero sociale del soggetto sono particolarmente accentuati e sono perseguiti mediante la volontaria prestazione di attività non retribuita a favore della collettività".

 

Attesa la "ratio" dell'istituto in esame non è logico considerare tamquam non esset il lavoro svolto dal V. , sol perché compiuto in un campo diverso da quello a cui avrebbe dovuto essere avviato, secondo il provvedimento del giudice. Ad opinare in tale senso induce del resto la flessibilità di cui è permeato il testo della previsione normativa in discorso, che nell'ultima parte del c. 9 bis dell'art. 186 CdS configura le ipotesi di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, rimettendo al giudice la valutazione, tenendo conto dei "motivi, dell'entità e delle circostanze della violazione") tale impostazione impone di bandire qualsivoglia tipo di automatismo e quindi, a "fortiori", preclude di sottovalutare, fino al punto da annullarne gli effetti, la portata di un lavoro comunque prestato regolarmente, seppure non nel campo che era stato indicato nella sentenza di cognizione.

 

L'ordinanza impugnata deve quindi essere annullata con rinvio per nuovo esame al gip del Tribunale di Piacenza, che dovrà uniformarsi al principio di diritto sopra espresso.

 

P.Q.M.

 

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al gip del Tribunale di Piacenza.

 

 

da Altalex

 

 

 

 

Martedì, 04 Febbraio 2014
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