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Corte di Cassazione 13/04/2011

Giurisprudenza di legittimità - Sfreccia ad alta velocità con il semaforo rosso: omicidio volontario o colposo?

(Cass. Pen., sez. I, 15 marzo 2011, n. 10411)

 

Non fermarsi con il semaforo rosso e provocare la morte di una persona è omicidio volontario. E’ quanto ha stabilito la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 15 marzo 2011, 10411.

Il caso vedeva un automobilista, sprovvisto di patente, alla guida di un furgone rubato, sfrecciare ad alta velocità in presenza di diversi semafori rossi, al fine di sfuggire ad una volante della polizia la quale, a sirene spiegate, decideva di inseguire detto furgone. A causa delle condizioni di traffico intenso, la pattuglia della polizia desisteva dall’inseguimento, al fine di non mettere in repentaglio l’incolumità dei passanti.

Il furgone, dopo l’ennesimo passaggio senza rispettare il semaforo rosso, si andava a scontrare con due automobili transitanti nello stesso incrocio, procurando la morte di uno degli occupanti di queste ed il ferimento di altre persone.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale di legittimità, il fondamento del dolo indiretto (o eventuale) è da individuare nella rappresentazione e nell’accettazione, da parte dell’agente, della concreta possibilità, intesa in termini di elevata probabilità, di realizzazione dell’evento accessorio allo scopo perseguito in via primaria. In altre parole, il soggetto pone in essere un’azione accettando il rischio del verificarsi dell’evento che, nella rappresentazione psichica, non é direttamente voluto, ma appare probabile; l’agente, pur non avendo avuto di mira quel determinato accadimento, ha tuttavia agito anche a costo che questo si realizzasse, sicché lo stesso non può non considerarsi riferibile alla determinazione volitiva.

Si rientra, invece, nella c.d. colpa cosciente, aggravata dall’avere agito nonostante la previsione dell’evento (art. 61 n. 3 c.p.), qualora l’agente, nel porre in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell’evento, ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione, o nella ragionevole speranza, di poterlo evitare per abilità personale o per intervento di altri fattori.

Come evidenziato dal giudice nomofilattico: “Dall’interpretazione letterale dell’art. 61, comma 1, n. 3 cod. pen., che fa esplicito riferimento alla realizzazione di un’azione pur in presenza di un fattore ostativo della stessa, si evince che la previsione deve sussistere al momento della condotta e non deve essere stata sostituita da una non previsione o controprevisione, come quella implicita nella rimozione del dubbio. Quest’ultimo non esclude l’esistenza del dolo, ma non è sufficiente ad integrarlo”.

Il semplice accantonamento del dubbio, quale stratagemma mentale cui l’agente può consapevolmente ricorrere per vincere le remore ad agire, non esclude di per sé l’accettazione del rischio, ma comporta piuttosto la necessità di stabilire se la rimozione stessa abbia un’obiettiva base di serietà e se il soggetto abbia maturato in buona fede la convinzione che l’evento non si sarebbe verificato.

Mentre, infatti, nel dolo eventuale occorre che la realizzazione del fatto sia stata "accettata" psicologicamente dal soggetto, nel senso che egli avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza del verificarsi del fatto, nella colpa con previsione la rappresentazione come certa del determinarsi del fatto avrebbe trattenuto l’agente.

Nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l’agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro. L’autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell’interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco - il suo e quelli altrui - e attribuisce prevalenza ad uno di essi. L’obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l’evento collaterale, che viene dall’agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito. Non è, quindi, sufficiente la previsione della concreta possibilità di verificazione dell’evento lesivo, ma è indispensabile l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il conseguimento di un determinato risultato.

(Nota di Simone Marani)

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

Sentenza 15 marzo 2011, n. 10411

(Pres. Di Tomassi – Rel. Cassano)

Ritenuto in fatto

1. Il 6 febbraio 2009 la Corte d’assise di Roma dichiarava I.V. colpevole dei delitti di omicidio volontario aggravato in danno di T.R. (capo a), lesioni volontarie aggravate nei confronti di T.V. , Te.Ni. , G.G. (capo b), ricettazione di un furgone (capo c) e, ritenuta la continuazione fra i reati, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche dichiarate prevalenti sulle contestate aggravanti, lo condannava alla pena di sedici anni di reclusione, oltre alle pene accessorie e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

2. Dalla ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado emergeva quanto segue. Il **** , intorno alle ore 0,30, una volante della Polizia in servizio nel centro di Roma avvistava il furgone Fiat Ducato - provento di furto commesso il ****, in danno di Gi.Ce. -, condotto dall’imputato, che si trovava solo a bordo del mezzo. Gli agenti, colpiti dal comportamento di I. che, alla loro vista, aveva iniziato ad accelerare, decidevano di procedere ad un controllo. Pertanto, mentre il furgone stava iniziando a percorrere viale **** in direzione di via ****, azionavano il lampeggiatore e la sirena e, con la paletta, facevano segno all’imputato di fermarsi. Il conducente del mezzo, sprovvisto di patente, non ottemperava all’ordine e si dava alla fuga ad una velocità pari a 100-110 chilometri all’ora, oltrepassando, senza decelerare, una serie di semafori che segnavano luce rossa nella sua direzione di marcia. Attese le condizioni di traffico ancora intenso nella notte estiva, la Polizia, per non mettere a repentaglio l’incolumità dei passanti, spegneva la sirena e il lampeggiante e desisteva dall’inseguimento, limitandosi a non perdere di vista il fuggitivo, la cui presenza veniva segnalata via radio alle altre pattuglie.

Giunto ad una velocità superiore ai centro chilometri orari all’altezza dell’incrocio tra viale **** e via ****, I. lo attraversava senza rallentare, nonostante che il semaforo segnasse rosso. Nello stesso tempo attraversava regolarmente l’incrocio, proveniente da **** e diretta verso ****, l’autovettura "Citroen" condotta da Te.Ni. al cui fianco sedeva la fidanzata, T.V. , mentre il sedile posteriore era occupato da T.R. , fratello di V. .

Il furgone, che non lasciava sull’asfalto tracce di frenata, si scontrava con grande violenza con la "Citroen" all’altezza della fiancata posteriore destra in corrispondenza del posto occupato da T.R. e, quindi, colpiva altre due auto transitanti nello stesso incrocio, tra cui quella condotta da G.G. .

Al termine della corsa, il furgone si rovesciava su di un fianco; il conducente cercava di uscirne sfondando a calci un vetro e di darsi alla fuga, ma veniva prontamente bloccato dalla Polizia.

T.R. decedeva poco dopo in ospedale a causa delle lesioni subite. Te.Ni. , T.V. e G.G. riportavano anch’essi gravi ferite.

3. La Corte territoriale perveniva all’affermazione di penale responsabilità dell’imputato sulla base delle dichiarazioni delle parti offese, degli altri testimoni, degli accertamenti medico-legali, delle risultanze della consulenza tecnica svolta sulla dinamica dell’accaduto.

Con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto i giudici di primo grado osservavano che l’elemento distintivo tra omicidio volontario con dolo eventuale e omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento risiede nell’accettazione del rischio. Pertanto, "chi lo accetta, agendo anche a costo di determinare l’evento mortale che si rappresenta, risponde di omicidio volontario con dolo eventuale", mentre "chi, pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole speranza che esso non si verificherà, risponde di delitto colposo" (cfr. f. 6 sentenza). Nel caso di specie, una pluralità di elementi (l’elevatissima velocità serbata dall’imputato; il numero degli incroci impegnati prima dell’impatto mortale, sebbene il semaforo segnasse la luce rossa; le caratteristiche del furgone, del peso accertato di due tonnellate; le particolari condizioni di luogo - centro urbano - in cui era avvenuto il fatto; la situazione del traffico ancora intenso, trattandosi di periodo estivo e di una zona centrale della città) erano univocamente indicativi del fatto che I. si era rappresentato di potere cagionare con il suo comportamento un incidente anche con esiti mortali, ma aveva accettato il rischio della sua verificazione, pur di sottrarsi al controllo della Polizia che lo inseguiva con un mezzo più leggero, potente, veloce e, quindi, lo avrebbe raggiunto agevolmente, qualora avesse ridotto la velocità e tenuto una complessiva diversa condotta di guida. D’altra parte, in caso di impatto con un’autovettura, il suo rischio personale sarebbe stato incomparabilmente minore, considerate la struttura e la mole del furgone che guidava.

4. Il 18 marzo 2010 la Corte d’assise d’appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, appellata dall’imputato, riqualificati i fatti contestati ai capi a) e b) rispettivamente come omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento (art. 589 e 61, comma 1, n. 3 cod. pen.) e lesioni colpose gravi (art. 590, comma 2, cod. pen.), ritenuta la continuazione fra i reati, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche dichiarate equivalenti alle aggravanti contestate, determinava la pena per i suddetti reati in sei anni e sei mesi di reclusione. Per il reato di ricettazione infliggeva la pena di due anni di reclusione e mille Euro di multa, irrogando così complessivamente la pena di otto anni, sei mesi di reclusione e mille Euro di multa. Confermava, nel resto, la sentenza impugnata.

5. I giudici d’appello, dopo avere premesso che la dinamica dell’accaduto non era oggetto di contestazione e che la valutazione doveva essere limitata alla ricostruzione dell’atteggiamento psicologico sotteso alla condotta dell’imputato, osservavano che la linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente va individuata nel diverso atteggiamento psicologico dell’agente che, nel primo caso, accetta il rischio che si verifichi un evento diverso non direttamente voluto, mentre nella seconda ipotesi, nonostante l’identità della prospettazione, respinge il rischio confidando nella propria capacità di controllare l’azione.

Sulla base di tali premesse teoriche la Corte d’assise d’appello non riteneva condivisibile la decisione del giudice di primo grado, laddove sembrava far derivare dal grave grado di colpa insito nella condotta di guida dell’imputato la prova della previsione dell’evento e, quindi, dell’accettazione del rischio di un incidente mortale, senza soffermarsi a considerare, con valutazione ex ante, se il prevenuto potesse essersi rappresentato l’evento lesivo come concretamente realizzabile in tempo utile per potersi diversamente determinare, né se potesse essere stato animato dalla ragionevole convinzione di poterlo scongiurare e, quindi, di potere dominare eventuali situazioni di emergenza.

Muovendo da tali premesse teoriche, la Corte territoriale argomentava che l’analisi delle risultanze processuali non consentiva di ritenere raggiunta la prova di tale concreta rappresentazione, che, sola, avrebbe consentito una più grave qualificazione giuridica.

Il superamento - o per l’assenza di ostacoli o grazie ad appropriate manovre di guida - di alcuni incroci prima di quello con via **** poteva avere ingenerato nell’imputato non già la volontà di persistere ad ogni costo in una situazione di grave pericolo per l’altrui incolumità, quanto piuttosto il convincimento di poter superare con relativa facilità anche l’incrocio tra viale **** e via ****.

Inoltre, la volontà di fuga dell’imputato doveva essere letta nel più ampio contesto dell’azione, caratterizzata dalla scelta della Polizia di desistere dall’inseguimento proprio per evitare incidenti e dal controllo a distanza del furgone, sì da consentirgli la possibilità di rallentare. Supposto che l’imputato non fosse stato in grado di percepire tale circostanza, in ogni caso l’eventualità di un incidente era per lui la meno favorevole, perché avrebbe determinato il suo arresto. Era, quindi, verosimile che I. , pur procedendo in modo spericolato, fosse ragionevolmente convinto di poter dominare la situazione, cioè di essere in grado di superare impunemente anche l’incrocio tra viale **** e via ****, fidando sulla sua capacità di guida e sulle condizioni del traffico - comunque a quell’ora di notte più scarso - e non fosse animato dalla determinazione di procedere ad ogni costo contro i suoi stessi interessi.

La rappresentazione dell’evento lesivo si era, quindi, verificata solo nel momento in cui, impegnando l’incrocio tra viale **** e via ****, l’imputato aveva trovato sulla sua traiettoria l’autovettura "Citroen" condotta da Te.Ni. , avvistata all’ultimo momento a causa dell’elevatissima velocità.

L’assenza di tracce di frenata non escludeva un estremo tentativo di decelerazione o di inizio di frenata senza il bloccaggio delle ruote, mentre verosimilmente l’assenza di un tentativo di deviazione dalla traiettoria andava ricondotto alla velocità e alla scarsa manovrabilità del furgone in relazione ai ridottissimi tempi di avvistamento.

La mancanza di una patente di guida valida in Italia costituiva una mera carenza amministrativa che non escludeva, certamente, la capacità di guida, considerato che l’imputato aveva dichiarato di avere conseguito la relativa abilitazione nel suo Paese e che non erano stati acquisiti elementi di segno contrario. D’altronde l’imputato doveva essere abituato a condurre veicoli, poiché, diversamente, non si sarebbe posto alla guida di un pesante mezzo di provenienza illecita né sarebbe stato capace di affrontare un inseguimento, protrattosi per alcuni chilometri a velocità elevatissima. D’altra parte, l’ampiezza dell’incrocio in cui avvenne il sinistro, pur tenendo conto del traffico non scarso in quella notte estiva, consentiva di ipotizzare che il conducente avrebbe trovato comunque uno spazio in cui inserirsi.

6. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma e l’imputato, tramite i difensori di fiducia.

6.1. Il primo denuncia erronea interpretazione della legge penale e vizio della motivazione con riferimento alla riqualificazione giuridica del fatto quale omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento. La concreta rappresentazione della possibilità di verificazione dell’evento e l’insussistenza di elementi obiettivi su cui fondare la fiducia che lo stesso non si sarebbe determinato era desumibile dalla complessiva condotta di guida dell’imputato, dall’elevatissima velocità tenuta in ora notturna e in centro urbano, dall’assenza di tracce di frenata - indicative della incapacità, oltre che della mancanza di volontà, di porre in essere utili e proficue manovre di emergenza -, dalla mancanza di un tentativo di deviazione della traiettoria, nonostante l’ampiezza dell’incrocio e le ottime possibilità di avvistamento, dalle caratteristiche del furgone che, lanciato a folle velocità, era assimilabile ad un "proiettile". Tale comportamento era univocamente espressivo di una volontà tenacemente protesa alla fuga che, pur nella previsione dell’evento, ne aveva accettato il rischio nella prospettiva dell’impunità.

6.2. I difensori dell’imputato, a loro volta, formulano le seguenti censure.

Innanzitutto lamentano la violazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen. con riferimento al diniego del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, operato invece in primo grado, tenuto conto della natura colposa e meno grave dei reati ritenuti; tale, diniego, in assenza di impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di primo grado, da luogo alla violazione del divieto di reformatio in peius, soprattutto nel caso di specie in cui non erano stati acquisiti nuovi elementi che consentissero la modifica del giudizio di prevalenza delle attenuanti già effettuato rispetto a reati originariamente più gravi.

In secondo luogo lamentano violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento al giudizio di comparazione tra l’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11-bis cod. pen e le attenuanti generiche, non risultando specificato né in dispositivo né in motivazione se le attenuanti generiche, già riconosciute in primo grado con giudizio di prevalenza sull’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis cod. pen., siano state concesse con analogo giudizio di valenza relativamente al delitto di ricettazione ovvero negate o ritenute soltanto equivalenti, nonostante che al riguardo (come del resto sugli altri capi della sentenza) non sia stato proposto appello dal pubblico ministero.

Deducono, infine, violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla dosimetria della pena, non potendosi ritenere una valida motivazione quella incentrata esclusivamente sulla eccezionale gravità della condotta e del grado della colpa.

Infine, con motivi aggiunti denunciano violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11-bis cod. pen. di cui la Consulta, con sentenza n. 249 del 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale.

7. Il 14 gennaio 2011 la parte civile depositava presso la cancelleria di questa Corte un’articolata memoria difensiva con la quale confutava le argomentazioni della sentenza impugnata mediante ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali sul criterio discretivo tra dolo eventuale e colpa cosciente e il richiamo delle specifiche circostanze di fatto univocamente indicative della sussistenza degli elementi costitutivi del dolo eventuale. Chiedeva, in subordine, di rimettere la questione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

 

Osserva in diritto

 

Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma è fondato.

1. L’esatta ricostruzione degli elementi distintivi tra dolo eventuale e colpa cosciente presuppone la definizione dei rapporti tra l’elemento della rappresentazione e quello della volontà nel quadro della struttura del dolo, che rappresenta il criterio ordinario d’imputazione soggettiva.

La volontà esprime la tensione dell’individuo verso il conseguimento di un risultato non in termini di mero desiderio - dimensione questa che attiene alla sfera della motivazione - quanto piuttosto di concreta attivazione in vista del raggiungimento di un determinato scopo. Qualsiasi condotta umana, eccezion fatta per i comportamenti del tutto irrazionali, mira ad un risultato e solo il riferimento ad esso consente di individuare la volontà dell’agente, che deve investire direttamente o indirettamente (nei termini che saranno precisati al paragrafo successivo) anche l’intero fatto di reato colto nella sua unità di significato, nel dinamismo tra i suoi elementi e nella proiezione teleologica in direzione dell’offesa. In adesione ad una recente elaborazione teorica è possibile affermare che, poiché il comportamento doloso orienta finalisticamente i fattori della realtà nella prospettiva del mezzo verso uno scopo, esso attrae nell’ambito della volontà l’intero processo che determina il risultato perseguito. Per conseguenza la finalizzazione della condotta incide sulla sfera della volizione e la svela.

L’elemento rappresentativo attiene, a sua volta, al complessivo quadro di conoscenza degli elementi essenziali del fatto nel cui ambito la deliberazione è maturata.

Esso costituisce il substrato razionale in virtù del quale la decisione di agire si pone in correlazione con il fatto inteso nella sua unitarietà, così giustificando il riconoscimento di una scelta realmente consapevole, idonea a fondare la più grave forma di colpevolezza. La volontà presuppone, perciò, la consapevolezza di ciò che si vuole. Il dolo è, quindi, rappresentazione e volontà del fatto tipico. La rappresentazione, che ha ad oggetto tutti gli elementi essenziali del fatto, assume - come osservato con efficace sintesi da un’autorevole dottrina - natura psichica di conoscenza, quando concerne gli elementi preesistenti e concomitanti al comportamento, di coscienza, quando è riferita alla condotta, di previsione, quando riguarda elementi futuri, qual è essenzialmente l’evento del reato.

Nell’agire doloso, il soggetto agente orienta deliberatamente il proprio comportamento verso la realizzazione del fatto di reato che costituisce un disvalore per l’ordinamento giuridico, modella la propria condotta in modo da imprimerle l’idoneità alla realizzazione del fatto tipico che può considerarsi voluto proprio perché il soggetto ha deciso di agire in modo tale da determinarlo.

La rappresentazione e la volizione debbono avere ad oggetto tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica -condotta, evento e nesso di causalità materiale -, e non il solo evento causalmente dipendente dalla condotta, come è confermato dalla disciplina dell’errore sul fatto costituente reato contenuta nel primo comma dell’art. 47 c.p., secondo cui siffatto errore, facendo venir meno il dolo sotto il profilo della indispensabile consapevolezza degli elementi essenziali della fattispecie, esclude la responsabilità dolosa e la punibilità dell’agente.

Nei reati a forma vincolata oggetto del dolo deve essere la condotta specificamente descritta nella norma incrini matrice, mentre nei reati a forma libera, quali sono i reati di cui ai capi a), b), l’imputazione a titolo di dolo del fatto nel suo insieme postula che la volontà sia effettiva sino all’ultimo atto.

2. La giurisprudenza di legittimità individua il fondamento del dolo indiretto o eventuale nella rappresentazione e nell’accettazione, da parte dell’agente, della concreta possibilità, intesa in termini di elevata probabilità, di realizzazione dell’evento accessorio allo scopo perseguito in via primaria. Il soggetto pone in essere un’azione accettando il rischio del verificarsi dell’evento, che nella rappresentazione psichica non é direttamente voluto, ma appare probabile. In altri termini, l’agente, pur non avendo avuto di mira quel determinato accadimento, ha tuttavia agito anche a costo che questo si realizzasse, sicché lo stesso non può non considerarsi riferibile alla determinazione volitiva (Sez. Un. 12 ottobre 1993, n. 748; Sez. Un. 15 dicembre 1992, Cutruzzolà, in Cass. pen., 1993, 1095; Sez. Un. 12 ottobre 1993, n. 748; Sez. Un. 14 febbraio 1996, n. 3571; Sez. 1^, 12 novembre 1997, n. 6358; Sez. 1^, 11 febbraio 1998, n. 8052; Sez. 1^, 20 novembre 1998, n. 13544; Sez. 5^, 17 gennaio 2005, n. 6168; Sez. 6^, 26 ottobre 2006, n. 1367; Sez. 1^, 24 maggio 2007, n. 27620; Sez. 1^, 29 gennaio 2008, n. 12954).

Si versa, invece, nella forma di colpa definita "cosciente", aggravata dall’avere agito nonostante la previsione dell’evento (art. 61 n. 3 cod. pen.), qualora l’agente, nel porre in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell’evento, ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione, o nella ragionevole speranza, di poterlo evitare per abilità personale o per intervento di altri fattori.

Dall’interpretazione letterale dell’art. 61, comma 1, n. 3 cod. pen., che fa esplicito riferimento alla realizzazione di un’azione pur in presenza di un fattore ostativo della stessa, si evince che la previsione deve sussistere al momento della condotta e non deve essere stata sostituita da una non previsione o controprevisione, come quella implicita nella rimozione del dubbio. Quest’ultimo non esclude l’esistenza del dolo, ma non è sufficiente ad integrarlo.

Una qualche accettazione del rischio sussiste tutte le volte in cui si deliberi di agire, pur senza avere conseguito la sicurezza soggettiva che l’evento previsto non si verificherà. Il semplice accantonamento del dubbio, quale stratagemma mentale cui l’agente può consapevolmente ricorrere per vincere le remore ad agire, non esclude di per sé l’accettazione del rischio, ma comporta piuttosto la necessità di stabilire se la rimozione stessa abbia un’obiettiva base di serietà e se il soggetto abbia maturato in buona fede la convinzione che l’evento non si sarebbe verificato.

In tale articolato contesto, come sottolineano i più recenti approdi interpretativi dottrinali e giurisprudenziali, poiché la rappresentazione dell’intero fatto tipico come probabile o possibile è presente sia nel dolo eventuale che nella colpa cosciente, il criterio distintivo deve essere ricercato sul piano della volizione. Mentre, infatti, nel dolo eventuale occorre che la realizzazione del fatto sia stata "accettata" psicologicamente dal soggetto, nel senso che egli avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza del verificarsi del fatto, nella colpa con previsione la rappresentazione come certa del determinarsi del fatto avrebbe trattenuto l’agente.

Nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l’agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro. L’autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell’interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco - il suo e quelli altrui - e attribuisce prevalenza ad uno di essi. L’obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l’evento collaterale, che viene dall’agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito. Non è, quindi, sufficiente la previsione della concreta possibilità di verificazione dell’evento lesivo, ma è indispensabile l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il conseguimento di un determinato risultato (Sez. 6^, 26 ottobre 2006, n. 1367; Sez. 1^, 29 gennaio 2008, n. 12954; Sez. 5^, 17 settembre 2008, n. 44712).

3. La delicata linea di confine tra il "dolo eventuale" e la "colpa cosciente" o "con previsione" e l’esigenza di non svuotare di significato la dimensione psicologica dell’imputazione soggettiva, connessa alla specificità del caso concreto, impongono al giudice di attribuire rilievo centrale al momento dell’accertamento e di effettuare con approccio critico un’acuta, penetrante indagine in ordine al fatto unitariamente inteso, alle sue probabilità di verificarsi, alla percezione soggettiva della probabilità, ai segni della percezione del rischio, ai dati obiettivi capaci di fornire una dimensione riconoscibile dei reali processi interiori e della loro proiezione finalistica. Si tratta di un’indagine di particolare complessità, dovendosi inferire atteggiamenti interni, processi psicologici attraverso un procedimento di verifica dell’id quod plerumque accidit alla luce delle circostanze esteriori che normalmente costituiscono l’espressione o sono, comunque, collegate agli stati psichici.

4. La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi sinora illustrati.

Innanzitutto, pur muovendo dalla dichiarata adesione ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sui criteri distintivi tra dolo eventuale e colpa cosciente, ha incentrato l’iter dell’argomentazione pressoché esclusivamente sull’elemento rappresentativo, trascurando un’adeguata analisi ricostruttiva del profilo della volizione (cfr precedente par. 3), così come maturata nello specifico contesto fattuale sottoposto al suo esame.

In secondo luogo ha ricostruito l’elemento di natura intellettiva della previsione/rappresentazione correlato al fatto oggetto del giudizio sulla base di valutazioni astratte e presuntive, prescindendo dall’esame di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica - condotta, evento e nesso di causalità materiale -, quali emergenti dallo specifico caso concreto.

È, in tal senso, mancata una compiuta e globale ricostruzione dell’intera vicenda, idonea a fondare un epilogo decisionale diverso rispetto a quello della sentenza di primo grado. Il giudice d’appello, infatti, dopo avere sommariamente descritto l’episodio, ha proceduto alla "scomposizione" del fatto, enucleandone soltanto alcuni aspetti (superamento indenne di precedenti incroci regolati da impianto semaforico che proiettava luce rossa; capacità di guida; tempi e modi di avvistamento dell’autovettura "Citroen"; condizioni del traffico; caratteristiche dell’incrocio tra viale **** e via ****) e, rispetto a ciascuno di essi, ha desunto la configurabilità della colpa aggravata dalla previsione dell’evento sulla base di mere congetture, omettendo una compiuta analisi di tutti i dati conoscitivi acquisiti.

In particolare, con riferimento alla genesi dell’episodio, la sentenza impugnata si è limitata a osservare che la Polizia, dopo l’iniziale avvistamento, aveva deciso di desistere dall’inseguimento per evitare incidenti, ma non ha specificato dopo quanto tempo rispetto all’avvistamento iniziale ciò avvenne, se l’imputato - che non era sotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti - fu in grado di percepire tale mutato comportamento delle forze dell’ordine e se, in conseguenza di esso, ebbe a decelerare e ad atteggiare diversamente la condotta di guida, se fu in grado di valutare le conseguenze di un eventuale rallentamento in relazione alla diverse dimensioni dei mezzi e alla loro differente velocità, limitandosi a considerare, in via meramente ipotetica, che l’eventualità di un incidente non poteva non apparire a I. la meno favorevole, perché avrebbe determinato certamente il suo arresto (f. 6 sentenza impugnata). La evidente carenza motivazionale su tutti questi profili incide sulla compiuta analisi dell’elemento volitivo.

Analogamente ne impediscono l’esatta ricostruzione l’omesso apprezzamento delle modalità e della durata dell’inseguimento, del lasso di tempo intercorso tra l’inizio dello stesso e la sua trasformazione in mero controllo a distanza del furgone rubato, delle complessive modalità della fuga, della sua protrazione pur dopo che la Polizia aveva adottato una differente tipologia di vigilanza, dell’estensione chilometrica del percorso effettuato.

Si sostiene, inoltre, apoditticamente che l’imputato, procedendo in maniera spericolata ad oltre centro chilometri all’ora in centro abitato e in presenza di traffico veicolare ancora intenso a causa del periodo estivo e dell’ubicazione dei luoghi, era ragionevolmente convinto di potere dominare la situazione, ossia di essere in grado di superare anche l’incrocio tra via **** e viale **** , grazie alla sua abilità di guida e alle condizioni di traffico più limitate in ora notturna (f. 5 sentenza impugnata). Tale affermazione, fondata su mere presunzioni, mal si concilia, peraltro, con l’apprezzamento riservato dagli stessi giudici alla precedente condotta di guida, la cui mancata produzione di pregressi eventi lesivi è stata alternativamente ricondotta - ancora una volta in via meramente ipotetica - all’assenza di ostacoli o alla capacità di porre in essere le manovre più appropriate (f. 6 sentenza impugnata).

La Corte d’appello ha, poi, desunto la capacità di guida - pur in assenza di una valida patente - dalle dichiarazioni rese dall’imputato e non riscontrate in alcun modo circa il relativo conseguimento, in epoca imprecisata, nel paese d’origine e dalla circostanza che lo stesso non si sarebbe altrimenti posto alla guida di un pesante mezzo di illecita provenienza né sarebbe stato in grado di sostenere "un inseguimento protrattosi per alcuni chilometri a velocità elevatissima" (cfr. f. 7 sentenza impugnata). Tale conclusione si pone in aperto contrasto con la stessa ricostruzione del fatto operata dalla sentenza, evidenziante, sulla base delle testimonianze acquisite, che i poliziotti avevano desistito dall’inseguimento per evitare incidenti (cfr. f. 6 della sentenza impugnata). Essa confligge, inoltre, con la rilevata assenza di tracce di frenata, con la mancata adozione di manovre di deviazione della traiettoria (cfr. f. 6 sentenza impugnata), o, comunque, di manovre di emergenza, astrattamente possibili, tenuto conto delle caratteristiche dell’incrocio in cui si verificò il fatto e dell’ampiezza della relativa visuale (f. 7 sentenza impugnata).

Il carattere non univoco dell’omessa presenza di tracce di frenata sul luogo dell’incidente è stato sostenuto dai giudici di merito sulla base di un immotivato richiamo ad un’alternativa astrattamente prospettata dal consulente tecnico (cfr. f. 6 sentenza d’appello), le cui considerazioni sul punto (non conosciute né conoscibili dal giudice di legittimità che non ha accesso diretto agli atti) non sono state illustrate né sono state oggetto di verifica critica alla luce dell’epoca di fabbricazione del furgone e delle caratteristiche del sistema di arresto e di frenata.

Il generico riferimento alle pregiudizievoli conseguenze per l’imputato in caso di sinistro è stato effettuato, omettendo di considerare il dato - valorizzato invece dalla sentenza di primo grado - costituito dai diversi esiti, in caso di incidente, per colui che viaggiava a bordo di un furgone del peso pari a circa due tonnellate e per chi, invece, si trovasse a bordo di un’auto.

La conclusione circa l’omessa volizione e accettazione del rischio di verificazione dell’evento lesivo nella convinzione, o nella ragionevole speranza, di poterlo evitare per abilità personale, desunta dalla capacità di guida e dall’asserita capacità di trovare "uno spazio in cui inserirsi", pur in presenza di un "traffico non scarso", mal si concilia con le indicazioni in ordine alle caratteristiche del luogo del sinistro ("un incrocio...molto ampio", secondo quanto risulta a f. 7 della sentenza impugnata), al punto d’impatto (la fiancata posteriore destra dell’auto "Citroen" condotta da Te.Ni. - cfr. f. 1 sentenza impugnata) e alla mancata adozione di qualsiasi tipo di manovra di emergenza (cfr. f. 6 della sentenza impugnata), idonea a scongiurare la collisione.

5. Nella giurisprudenza di questa Corte è stato chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti. Il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità, posto che "nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, talché il limite della valenza di ognuno risulta superato, [...] l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, e l’insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto [...] che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice" (Sez. Un, 4 febbraio 1992, n. 6682).

Le linee dei paradigmi valutativi della prova indiziaria sono state recentemente ribadite dalle Sezioni Unite che hanno evidenziato che il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può, perciò, prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sez. Un. 12 luglio 2005, n. 33748).

6. Nel caso in esame la Corte di merito, oltre a leggere in maniera parziale le risultanze processuali illustrate nella sentenza di primo grado, ha valutato la posizione dell’imputato analizzando soltanto alcuni degli elementi probatori e non si è preoccupato di calarli all’interno dell’intero contesto che avrebbe potuto indubbiamente contribuire a chiarire la loro effettiva portata dimostrativa e la loro reale congruenza rispetto al tema d’indagine.

Al fine di stabilire se nel caso in esame ricossero gli estremi del dolo eventuale o della colpa aggravata dalla previsione dell’evento, il giudice d’appello avrebbe dovuto esaminare i seguenti elementi, ponendoli in correlazione logica fra loro: le modalità e la durata dell’inseguimento; il lasso di tempo intercorso tra l’inizio dello stesso e la sua trasformazione in mero controllo a distanza del furgone rubato; le complessive modalità della fuga e la sua protrazione pur dopo che la Polizia aveva adottato una differente tipologia di vigilanza; le caratteristiche tecniche del mezzo rubato in rapporto a quanto in esso contenuto; la conseguente energia cinetica in relazione alla velocità serbata; le caratteristiche degli incroci impegnati con luce semaforica rossa prima del raggiungimento di quello tra via **** e viale **** e le relative possibilità di avvistamento di altri veicoli; la conformazione dei luoghi in cui avvenne l’impatto con la "Citroen" condotta da Te.Ni. ; l’assenza di tracce di frenata o di elementi obiettivamente indicativi di tentativi di deviazione in rapporto al punto d’impatto con il mezzo su cui viaggiavano i tre giovani e alle caratteristiche dell’incrocio tra viale **** e via ****; il comportamento serbato dall’imputato dopo la violenta collisione.

7. Palese è, infine, il vizio metodologico dell’iter argomentativo della sentenza impugnata che ha assunto il ragionevole dubbio come punto di partenza, anziché come approdo finale del ragionamento una volta assolto all’onere informativo. Compito del giudice di merito, infatti, è, in primo luogo, quello di esaminare tutte le informazioni probatorie acquisite e, quindi, di vagliare la loro valenza, non potendosi, al contrario, prendere le mosse dal ragionevole dubbio per mettere in ordine logico le congetture.

Il processo penale, passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto-reato, è sorretto da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente inferenziale-induttivo che partono dal fatto storico copiosamente caratterizzato nel suo concreto verificarsi (e dalla formulazione della più probabile ipotesi ricostruttiva di esso secondo lo schema argomentativo dell’abduzione), rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza dell’argomento del "deduttivo", da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse stesse. Il giudice è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di "certezza processuale", conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da "alto grado di credibilità razionale" o "conferma" dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di "elevata probabilità logica" (cfr. Sez. Un. 10 luglio 2002, n. 30328).

8. Per tutte le ragioni in precedenza esposte s’impone l’annullamento della sentenza impugnata in relazione alla qualificazione dei fatti di cui ai capi a) e b) e al trattamento sanzionatorio e il rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Roma.

9. I motivi formulati dalla difesa in tema di trattamento sanzionatorio sono assorbiti. La dosimetria della pena sarà, infatti, oggetto dell’autonoma determinazione del giudice di rinvio all’esito della qualificazione dei fatti contestati ai capi a) e b) della rubrica.

È necessario, peraltro, sin d’ora precisare che non viene violato il divieto di reformatio in peius tutte le volte in cui il giudice d’appello, nel confermare la responsabilità dell’imputato in ordine ad un determinato fatto storico, derubrichi il reato e proceda nell’ambito del giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., pur in mancanza di impugnazione del pubblico ministero, ad una diversa valutazione di quegli stessi elementi in precedenza posti a base del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle aggravanti contestate, ponendoli in correlazione con la nuova qualificazione giuridica del fatto (Sez. 5^, 22 maggio 1998, n. 10069; Sez. 2^, 28 maggio 2008, n. 23669; Sez. 5^, 3 aprile 2009, n. 40049).

10. Merita accoglimento la censura con la quale I. lamenta violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 61 n. 11-bis cod. pen..

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 249 del 5 luglio 2010 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’alt. 61, numero 11-bis, del codice penale e, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, limitatamente alle parole “e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 11-bis, del medesimo codice,” per contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali, così ponendo un principio che vale senz’altro anche in rapporto agli elementi accidentali del reato. La Consulta ha, in proposito, affermato che l’art. 61 n. 11-bis cod. pen. lede il principio di offensività, giacché non vale a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva con specifico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale e presunta qualità negativa del suo autore.

S’impone, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente all’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis cod. pen..

11. Ai fini del trattamento sanzionatorio il giudice del rinvio dovrà, pertanto, tenere conto della eliminazione della suddetta aggravante, originariamente contestata in relazione a tutti i capi d’imputazione contestati a I. e applicata in sede di bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche.

Questo profilo assorbe, quindi, il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo all’omesso riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto a quella disciplinata dall’abrogato art. 61 n. 11-bis cod. pen. in relazione al delitto di ricettazione.

12. La liquidazione delle spese di parte civile deve essere riservata al giudice di rinvio.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’aggravante di cui all’art. 61 n. 11 bis cod. pen., che elimina.

Annulla la sentenza impugnata in relazione alla qualificazione dei fatti di cui ai capi a) e b) e al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Roma.

Riserva la liquidazione delle spese di parte civile al giudice di rinvio.


da Altalex

 

Mercoledì, 13 Aprile 2011
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