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da Giuffrè editore - Il riciclaggio come la ricettazione, non si può concorrere nel reato presupposto. E il decreto di sequestro deve spiegarlo

di Elisabetta Rosi

Il delitto di riciclaggio previsto dall’articolo 648bis Cp presuppone la condizione negativa del non avere l’agente concorso nel reato presupposto. Con la decisione qui in commento (sentenza 14005/06 sezione seconda, leggibile nei correlati) la Sc ha affermato il principio che nella motivazione di un decreto di sequestro preventivo, di somme di denaro od altri beni, deve essere data ragione di tale elemento negativo, ossia della mancata partecipazione dell’indagato al reato presupposto, soprattutto nel caso in cui i rilievi svolti potrebbero validamente rappresentare a carico dell’indagato elementi di concorso in tale reato.
Nel caso in esame, il sequestro preventivo aveva avuto ad oggetto due conti correnti sui quali gli indagati potevano operare per delega conferita dal loro padre, il quale era stato indagato per il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria di cui all’articolo 132 del Tu delle leggi in materia bancaria e creditizia, in quanto aveva svolto un’attività professionalmente organizzata di concessione sistematica di finanziamenti e mutui. Dalla motivazione del provvedimento era emerso che gli indagati avevano continuato, pur dopo l’arresto del padre, a gestire i conti correnti svolgendo una attività complementare rispetto alla concessione abusiva del credito, costituita dalla ricezione delle quote restituite dai diversi beneficiari dei finanziamenti.

Secondo i giudici di legittimità, gli elementi così prospettati potevano in teoria evidenziare il "fumus" di una condotta di concorso degli indagati nel reato presupposto, in quanto l’attività posta in essere dagli stessi ben avrebbe potuto essere considerata come diretta ad assicurare il profitto delle illecite operazioni abusive intraprese dal padre. Sul punto l’ordinanza del tribunale del riesame aveva omesso di svolgere considerazioni per chiarire la univocità indiziaria di tali circostanze rispetto all’ipotizzato delitto di riciclaggio e pertanto la Sc ha annullato l’ordinanza, rinviando al tribunale affinché provveda a colmare tale lacuna nella motivazione del provvedimento.

2. Il riciclaggio dei proventi altrui.

Come è noto, la fattispecie di cui all’articolo 648bis Cp incrimina le condotte di sostituzione o trasferimento di denaro, beni o altre utilità di provenienza da delitto non colposo, ovvero il compimento di "operazioni " tali da ostacolare l’identificazione della provenienza illecita. La disposizione fu introdotta per la prima volta con decreto legge 59/1978 e fu poi modificata dall’articolo 23 della legge 55/1990. Nella primitiva formulazione il momento consumativo risultava anticipato con l’incriminazione degli atti o fatti,diretti a sostituire i proventi illeciti, peraltro limitati ai delitti di rapina ed estorsione aggravate o di sequestro di persona a scopo di estorsione. Con la novella del 1990, si venne a modificare la struttura della condotta illecita, il cui focus è rappresentato dal comportamento volto ad ostacolare l’identificazione dei beni o del denaro di provenienza delittuosa. La fattispecie è stata poi modificata nell’attuale formulazione dall’articolo 4 della legge 328/93, con l’abbandono definitivo dell’indicazione specifica dei reati presupposto, e l’introduzione del riferimento a tutti i delitti non colposi, quanto ai reati presupposto. L’occasione della redazione del testo vigente fu data dalla legge di ratifica della Convenzione di Strasburgo dell’8 novembre 1990, sul riciclaggio, la ricerca ed il sequestro dei proventi di reato. Oltre all’ipotesi di riciclaggio, sin dal 1990 è stata introdotta la fattispecie di Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (articolo 648ter Cp) che punisce, in via residuale rispetto ai delitti di ricettazione e riciclaggio, l’impiego in attività economiche o finanziarie, di proventi illeciti. Si tratta della criminalizzazione dell’impiego in una regolare attività economica o finanziaria o dell’utilizzo come fonte di finanziamento per tale attività dei proventi illeciti; tale attività costituisce l’ultimo anello dell’operazione di ripulitura del c.d. denaro sporco.

Il delitto di riciclaggio presenta una condotta complessa, nella quale confluiscono più operazioni di tipo economico-finanziario, che sovente comprendono lo svolgimento di attività di impresa nella quale il patrimonio conferito trova sia un utile nascondiglio che l’inizio di una metamorfosi, per indossare un nuovo vestito di legale attività. La giurisprudenza ha dato particolare rilevanza alla descrizione dell’elemento oggettivo della fattispecie, tanto da affermare la natura sussidiaria del delitto di favoreggiamento reale rispetto al riciclaggio stesso (Cfr. Cassazione, Sezione seconda, 11709/94, Coluccia, CED 199762). L’assunto è assai significativo dell’individuazione da parte della giurisprudenza, dell’amministrazione della giustizia come bene giuridico di tutela prevalente, rispetto al tradizionale interesse meramente patrimoniale, riconducibile alla titolarità del soggetto passivo del delitto presupposto.

L’elemento psicologico della fattispecie di riciclaggio è il dolo generico, unitamente al dolo specifico consistente nella finalità di far perdere le tracce dei proventi da reato. In relazione al dolo generico, elemento essenziale dello stesso è la consapevolezza della provenienza da delitto del provento: secondo la vigente legislazione, il reato presupposto del delitto di riciclaggio può essere qualunque delitto non colposo. La consapevolezza dell’agente in ordine alla provenienza dei beni da determinati delitti può essere desunta da qualsiasi elemento e "sussiste quando gli indizi in proposito siano così gravi ed univoci da autorizzare la logica conclusione della certezza che i beni ricevuti per la sostituzione siano di derivazione delittuosa specifica, anche mediata"(Vedi Cassazione, Sezione sesta, 9090/95, Prudente, CED 202312).

Una delle problematiche di maggiore interesse riguarda l’esatta delimitazione dei profili della condotta di riciclaggio. In particolare la giurisprudenza ha ritenuto che la condotta è identica a quella del delitto di ricettazione e ogni profilo differenziatore tra le fattispecie, poste innegabilmente a tutela di un medesimo interesse, viene ad essere costituito dal dolo specifico. Peraltro ci si deve anche chiedere se non sia più corretto, sotto il profilo dogmatico, riportare la connotazione finalistica al comportamento materiale, e verificare piuttosto che l’azione di occultamento sia "qualificata" nella sua finalizzazione.

È stato affermato che la condotta si riferisce al compimento di specifiche operazioni di sostituzione e trasferimento, nonché a quelle che ostacolino l’identificazione della provenienza delittuosa di denaro, beni ed altre utilità, senza che sia richiesta "la finalizzazione della condotta del reo al rientro del bene ripulito nella disponibilità dell’autore del reato presupposto" (Cfr.Cassazione Sezione seconda, 7224/99,Pm in proc. Leone, CED 213847). Ulteriori profili di specificazione della condotta di riciclaggio sono stati individuati da tempo dalla giurisprudenza che con la sentenza Cassazione Sezione seconda, 9026/97, Pirisi, CED 208747, ha affermato che con la disposizione di cui all’articolo 648bis Cp, il legislatore ha voluto reprimere sia le attività che si esplicano sul bene trasformandolo o modificandolo parzialmente, sia quelle altre che, senza incidere sulla cosa ovvero senza alterarne i dati esteriori, sono comunque di ostacolo per la ricerca della sua provenienza delittuosa." Un più recente arresto della giurisprudenza di legittimità ha ancora definito l’elemento differenziatore tra riciclaggio, impiego di denaro od utilità di provenienza illecita e ricettazione; è stato precisato che "tra il reato di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e quello di riciclaggio, nonchè tra quest’ultimo e quello di ricettazione vi è rapporto di specialità, che discende dal diverso elemento soggettivo richiesto dalle tre fattispecie incriminatrici - essendo comune l’elemento materiale della disponibilità di denaro o altra utilità di provenienza illecita: il delitto di cui all’articolo 648 cod. pen. richiede una generica finalità di profitto, quello di cui all’articolo 648 bis lo scopo ulteriore di far perdere le tracce dell’origine illecita, quello infine di cui all’articolo 648 ter che tale scopo sia perseguito facendo ricorso ad attività economiche o reprimere sia le attività che si esplicano sul bene trasformandolo o modificandolo parzialmente, sia quelle altre che, senza incidere sulla cosa ovvero senza alterarne i dati esteriori, sono comunque di ostacolo per la ricerca della sua provenienza delittuosa." (così Cassazione Sezione seconda, 18103/03, Sirani, CED 224395). La pronuncia si pone in linea con la precedente sentenza della Cassazione Sezione quarta, 6534/00, Ascieri, CED 216733, che aveva per prima stabilito il rapporto di specialità piramidale tra le fattispecie (l’articolo 648ter è speciale rispetto all’articolo 648bis e quest’ultimo è speciale rispetto alla ricettazione).

Per una diversità tra le fattispecie anche sotto il profilo dell’elemento oggettivo, esaminata peraltro in relazione alla ricezione contestuale di refurtiva, si veda anche Cassazione Sezione sesta, 1472/99, Archesso, CED 213449, che ha ritenuto che "allorchè un soggetto riceva, sia pure in unico contesto temporale, una pluralità di cose di provenienza delittuosa appartenenti ad una stessa persona, rendendosi responsabile, con riferimento ad alcune di esse, del reato di cui all’articolo 648 Cp e, con riferimento ad altre, di quello di cui all’articolo 648bis Cp, si è in presenza di una pluralità di eventi giuridici e quindi di reati. Non si tratta infatti di concorso apparente di norme in relazione alla medesima condotta, ma di distinti reati commessi con riferimento a beni diversi. ([Nella specie, la Sc ha ritenuto che non operava, con riferimento al reato di riciclaggio, riguardante preziosi sostituiti in blocco con denaro contante, il divieto di "bis in idem" in relazione al reato di ricettazione, già giudicato, avente ad aggetto altri preziosi, sia pure ricevuti dall’agente nel medesimo contesto temporale)". Dall’arresto giurisprudenziale deve cogliersi come contributo di maggior rilievo ed efficacia, il concetto di sostituzione: sembrerebbe quasi che sia la sostituzione della res a costituire la chiave di volta dell’operazione ermeneutica volta ad applicare la corretta disposizione. Diversamente resta aperto, e non del tutto chiaro, il destino del concetto di sostituzione per una categoria di refurtiva "smaterializzata", costituita dal bene fungibile per eccellenza, ossia dal denaro. In relazione alla ripulitura, appare evidente che essa può essere legata al concetto di sostituzione con un bene od utilità che possa apparire ottenuta in via lecita. Per il denaro, invece, tale concetto appare legato alle modalità di "re-investimento" o di raccolta dello stesso. Così la intestazione fittizia di proventi di reato ad un prestanome integra con chiarezza una modalità di ripulitura del denaro, ma anche l’acquisto di beni di valore con possibilità di loro successiva circolazione (opere d’arte, gioielli e oro, immobili) costituisce una modalità di sostituzione.

3. Verso la configurabilità di un riciclaggio dei "propri proventi"?

Certamente, l’elemento di maggiore pregnanza per la discussione qui intrapresa è costituito dalla necessità che il soggetto attivo del reato sia estraneo alla commissione del reato presupposto. La formulazione della fattispecie di riciclaggio, costruita sulla falsariga di quella della ricettazione, con l’inclusione dell’inciso: "salvo il caso di concorso nel reato", potrebbe sintetizzarsi nello slogan "si può ricettare o riciclare solo la refurtiva altrui". La ricezione da parte del compartecipe, seppure solo morale, al delitto presupposto, costituisce infatti un esempio di "post-factum" non punibile. Il discrimine tra le fattispecie di riciclaggio e ricettazione e post-factum sarebbe costituito dal fatto che l’eventuale offerta del ricettatore, antecedente al fatto criminoso, non abbia avuto sulla perpetrazione di esso alcuna influenza causale.
Le difficoltà emerse sono state rese evidenti dall’impossibilità - per la vigenza del principio di doppia incriminazione in relazione ai trattati di estradizione - di concedere l’estradizione richiesta dalla Svizzera di un riciclatore di "proventi dalla propria rapina" (vedi Cassazione Sezione sesta, 1732/98, Alabdullah, CED 211941). Peraltro, progressivamente, la giurisprudenza di legittimità è venuta a prendere consapevolezza della discrasia di considerare come meri post-fatti non punibili, vere e proprie condotte dotate di autonomia e dei requisiti dell’occultamento finalizzato a rendere non rintracciabili gli utili illeciti. Così, si è cominciato dapprima ad affermare la possibilità di ritenere legate dal vincolo della connessione la disposizione di cui all’articolo 648 bis cod.pen, e l’articolo 74 della legge stupefacenti, con ciò ammettendo implicitamente la possibilità di chiamare il compartecipe del consortitum sceleris a rispondere di riciclaggio dei proventi frutto dell’attività del gruppo criminale (Cassazione Sezione quinta, 617/00, Carboni, CED 215968). Si sono poi ritenuti cumulabili in un concorso di reati il delitto di riciclaggio e quello di associazione e delinquere (Cassazione Sezione seconda, 10582/03, Bertolotti, CED 223689), stabilendo l’assenza di ogni rapporto di "presupposizione" ed affermando che "il partecipe al sodalizio criminoso risponde altresì dell’imputazione per riciclaggio dei beni acquisiti attraverso la realizzazione dei reati-fine dell’associazione."
È quindi forse giunto il momento di riflettere in ordine ad una riforma che renda possibile la criminalizzazione del riciclaggio anche in relazione ai proventi del delitto che sia stato commesso dal medesimo autore, sempre che la condotta posta in essere dopo la consumazione del reato presupposto si sostanzi in quelle attività ed operazioni di ripulitura ed occultamento dei profitti criminosi, tipizzate nella fattispecie. Insomma, è giunto il momento di far cessare il commento consueto agli effetti provocati da un crimine per scopo di profitto: "chi delinque paga, ma i proventi sono i suoi". Il perdurare della situazione di "immunità patrimoniale" per il reo, infatti, non può che continuare a rendere appetibile la commissione proprio di quei delitti che sono in grado di produrre i profitti di maggiore consistenza.
Possono essere sintetizzati alcuni "nodi problematici", che costituiscono dei veri e propri ostacoli al raggiungimento dell’obiettivo "il crimine non paga".
Il primo è quello, appena enunciato, relativo alla non soddisfacente formulazione della fattispecie. Continuare a ritenere non configurabile il delitto di riciclaggio tutte le volte in cui il soggetto abbia concorso nel reato presupposto è - come si è detto - sia controproducente da un punto di vista di politica criminale (nessun freno alla miriade di trasformazioni, sostituzioni, fittizie intestazioni, attività economiche intraprese con un finanziamento illegale, ecc.), sia non perfettamente in linea con una definizione armonizzata a livello europeo ed internazionale della fattispecie, sia, - soprattutto - scorretto sotto il profilo dell’uguaglianza di trattamento in relazione a comportamenti illeciti del tutto identici dal punto di vista materiale ed anche psicologico. È forse non del tutto logico ritenere un mero post-factum non punibile la creazione di una società di comodo in uno dei paradisi fiscali, per riversare in essa attraverso un giro-conto tra banche di Stati diversi gli utili della rapina a mano effettuata, nello stesso modo in cui appare non punibile la semplice "spesa" del denaro ottenuto dalla rapina stessa (magari in viaggi, autovetture e gioielli). Le condotte sono diverse e non solo sotto l’aspetto psicologico (essendo evidente che la prima vuole rendere non più rintracciabile il provento del crimine). Infatti nessuno può negare che "le operazioni" poste in essere per far perdere le tracce alla refurtiva, e per ripulirla in modo da immetterla di nuovo nel mercato finanziario come ricchezza lecita, sono ben diverse da un mero consumo della refurtiva stessa o da una mera cessione del provento illecito ad altri. Insomma spostando l’attenzione, più correttamente, nella tipicità della condotta, non può che convenirsi che se si continua a mandare esenti da pena condotte autonome, ulteriori, e diverse dal mero godimento della refurtiva da parte del reo, la condotta di riciclaggio viene incriminata solo quando venga commessa da chi non aveva preso parte, a nessun titolo, al reato presupposto, mentre il comportamento di riciclaggio finisce per costituire un bonus per l’autore del riciclaggio stesso, tutte le volte in cui lo stesso sia anche autore del reato c.d. principale e presupposto ( situazione descrivibile con lo slogan criminale: "delinqui due e paghi uno"). Commettere un crimine "paga", in tal modo, due volte, non solo perché il riciclaggio della refurtiva finisce per essere incluso nella "pena" prevista per il crimine iniziale, ma anche perché conviene proprio fare in modo di non far trovare mai più i proventi, non solo perché costituiscono la prova del crimine, ma soprattutto perché ne rappresentano l’utile! (Di qui, l’altro possibile slogan: "Ricicla i tuoi profitti criminali: è gratis!")
Appare discutibile, insomma (per tali riflessioni si veda G. De Francesco, Internazionalizzazione del diritto e della politica criminale: verso un equilibrio di molteplici sistemi penali, in Dir. Pen. e processo, 2003, n. 1, p. 8) "l’esclusione di un intervento penale "cumulativo" rispetto ai reati-presupposto, data l’emersione di un nuovo e distinto profilo di disvalore rispetto a quello connesso al consolidamento dei frutti dell’illecito di provenienza".
Per realizzare questo obiettivo occorre certamente una modifica della fattispecie attuale, una provvida eliminazione dell’inciso, "fuori dei casi concorso nel reato" e, semmai, una più dettagliata tipizzazione dell’elemento oggettivo della fattispecie, la cui condotta deve diventare più pregnante, ma anche in grado di rendere "visibile" il dolo specifico, costituito non solo dal profitto, ma dal "nascondimento" e dalla trasformazione dei proventi.
Ma un secondo nodo problematico è quello aperto, seppure cautamente, dalla giurisprudenza di legittimità, la quale - come già detto - ha ritenuto "cumulabile" l’incriminazione per il riciclaggio in capo ai partecipi del delitto di associazione a delinquere, anche quando l’associazione sia finalizzata ad un particolare tipo di delitti (nella specie, quella finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti). È stato aperto un varco per il superamento del limite strutturale della fattispecie e, nello stesso tempo, è stata aperta la discussione sulla individuazione del reato presupposto. Il dibattito, apparentemente non particolarmente rilevante nel nostro ordinamento (che prevede la "riciclabilità" dei profitti di tutti i delitti non colposi), appare invece pieno di spunti problematici nell’esame comparato di altri sistemi giuridici, dove vige il sistema della "lista" di reati.
Peraltro la sentenza che qui si commenta sembra operare un’inversione di tendenza, seppure il problema risulta in pratica confinato sotto il profilo della legittimità della misura cautelare reale, alla fattispecie vigente, della quale si richiede un’esatta enucleazione sin dalla fase delle indagini preliminari. È stata infatti affermata la necessità che la motivazione del decreto contenga non solo la valutazione del giudice degli elementi indiziari del delitto di riciclaggio, ma anche la valutazione, in negativo, di tali elementi, relativamente alla possibile loro valenza quale indizio di partecipazione degli indagati di riciclaggio al reato presupposto.

*Magistrato


© asaps.it
Venerdì, 19 Maggio 2006
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