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Corte di Cassazione 04/10/2013

Coltivazione di cannabis: l'offensività della condotta va accertata in concreto

(Cass. Pen., sez. VI, 18 marzo 2013, n. 12612)

Scorrendo la sentenza in commento – depositata dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione lo scorso 18 marzo – appare naturale porsi il dubbio se, effettivamente, sia in corso, da parte della giurisprudenza di legittimità, un'auspicabile opera di revisione critica della struttura del concetto di offensività, sino ad ora utilizzata in tema di stupefacenti e, ancor più specificatamente, in materia di coltivazione di piante di cannabis, oppure se ci si imbatta in una petizione di principio destinata a non produrre effetti di sorta.

Con l'auspicio che prevalga la prima ipotesi, affrontiamo il tema sviluppato dalla sentenza.

Pare di potere osservare che i supremi giudici, anche se con indubbia cautela, si discostino da quell'indirizzo maggioritario che, sino ad oggi, configurava la sussistenza dell'offensività della condotta coltivativa – determinandone, così, la illiceità e la punibilità - solo ed esclusivamente in presenza di una situazione di assoluta inidoneità della sostanza prodotta dalle piante, che vengano rinvenute, a suscitare effetti droganti rilevabili.

Sono, infatti, ravvisabili, nella sentenza, alcuni pregevoli riferimenti (anche a profili involgenti la stessa legge sugli stupefacenti) che inducono a considerare ed a valutare il concetto di offensività in un'accezione di maggiore ampiezza e completezza, rispetto a quella sino ad oggi osservata.

La pronunzia, infatti, muove dalla adesione a quella procedura epistemologica, che fa della pregiudiziale e necessaria individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma il suo fulcro.

In pari tempo, la Suprema Corte riconosce la centralità ermeneutica del criterio indicato ed opera una approfondita ricognizione – in combinato disposto – sia della giurisprudenza costituzionale, che di quella di legittimità, onde sottolineare la necessità di svolgere, anche, una valutazione della effettiva lesività del fatto.

Ma vi è di più.

Di particolare interesse e rilevante, ai fini delle riflessioni che si intendono sviluppare, appare, in primo luogo, l'esplicito richiamo alla decisione delle SS.UU. 2 aprile 1998, Kremi, la quale, in riferimento alla condotta di cessione a terzi di stupefacenti contenenti principio attivo obbiettivamente inidoneo a produrre effetti psicotropi, ha affermato l'offensività di siffatta condotta, avendo ravvisato un concreto attentato al bene  giuridico presidiato dalla norma.

La Corte, per vero, pur muovendo da premesse, quelle della giurisprudenza evocata, che legittimerebbero uno sviluppo del concetto in parola, di amplissimo respiro, rimane – piuttosto timorosamente – legata alla pregiudizialità che il connotato oggettivo, fondato sull'attitudine del prodotto a suscitare effetti psicotropi, manifesta nell'ambito dei reati previsti dal dpr 309/90.

Ad avviso di chi scrive, invece, appare evidente che il criterio interpretativo, evocato, nello specifico caso, dalla pronunzia giurisprudenziale che si commenta, debba superare il collegamento eziologico obbligatorio ed esclusivo con il limite dato dalla soglia drogante del prodotto stupefacente.

Una parafrasi che possa essere definita come corretta si deve incentrare, invece, sulla proiezione relazionale, di natura esterna e pubblica, della condotta in esame (lo spaccio o la cessione a terzi che dir si voglia), la quale appare naturalmente strumentale e sintomatica di una reale e tangibile diffusività della sostanza illecita, nell'alveo sociale.

In quest'ottica, dunque, assume significativo rilievo il dato soggettivo della effettiva condotta tenuta dall'agente.

Vale a dire che il giudizio sull'offensività si sofferma e si incentra sulla concreta simbologia antigiuridica del gesto di cedere, pur a fronte di una alienazione di un prodotto inidoneo – in sé – a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato.

All'esito di queste considerazioni, risulta, quindi, una sostanziale modifica della prospettiva di base, sulla quale potere costruire la teoria dell'offensività concreta della condotta.

Il paradigma decisivo, infatti, viene trasferito dal piano strettamente obbiettivo (costituito dal superamento o meno del limite di idoneità drogante) a quello, invece, assolutamente subbiettivo (che pone in evidenza, a propria, volta la importanza della propagazione della circolazione di sostanza illecite).

Questo passaggio esegetico, che, come vedremo, si pone in un contesto mediano, rispetto ad ulteriori osservazioni contenute nella sentenza, permette, però, già di affermare la necessità di addivenire al superamento dell'orientamento, che possiamo definire – per le ragioni già esposte - puramente oggettivo, anche se questa modifica – forse - non costituisce ancora il fine prefissatosi dalla sentenza della Corte di Cassazione.

Metodologicamente,  quindi, la formulazione del concetto di offensività non può e non deve avvenire, prescindendo da quelle componenti e da quei fattori di carattere soggettivo, che, comunque, risultano inevitabilmente fondamentali per la elaborazione dell'istituto.

La fusione di questi due profili offre, senza dubbi di sorta, una chiave di decodificazione giuridica della possibile concreta offensività del fatto ipotizzato come illecito, caratterizzata da elevata precisione, perchè permette una specifica, quanto approfondita, indagine sull'effettiva minaccia dei beni giuridici tutelati.

Vi è, però, un'ulteriore prospettiva che la sentenza affronta e che, ad avviso di chi scrive, introduce importanti argomentazioni, le quali rafforzano il convincimento della necessità del superamento dell'indirizzo attualmente vigente, attesa la incompletezza del suo taglio, che, come detto, risulta improntato all'oggettività assoluta.

La Corte si sofferma, infatti, sul rapporto che intercorre fra dettato normativo e fatto concreto, rilevando che queste due cuspidi, in talune occasioni, non coincidono.

Ne consegue che il fatto asseritamente illecito, pur rispondendo al tipo descritto nella norma e da essa punito, finisca per risultare, in realtà , privo di carattere offensivo.

A fronte della norma penale, la quale, dunque, introduce nell'ordinamento una indicazione precettizia di carattere squisitamente teorico (corredata da una sanzione per l'ipotesi di sua inosservanza), si contrappone il fatto, (l'evento o la condotta a seconda dei casi) che, invece, esprime un spessore di indubbia concretezza .

Or bene, il giudice di legittimità rileva che la condizione di non sovrapponibilità e di divaricazione fra l'idealità e la tipicità dell'illecito, così come disegnata dalla norma, da un lato, e l'effettività propria del fatto, dall'altro, costituisce una situazione del tutto naturale.

Esistono, infatti, comportamenti, i quali, pur formalmente ed apparentemente conformi alla tipologia descritta dalla previsione normativa, si rivelano, in concreto, inoffensivi.

L'illecito si viene a concretare sul piano del modello formale, ma non produce conseguenze reali di lesione del precetto contenuto nella norma incriminatrice.

La Corte opera, pertanto, un decisivo distinguo fra il “concetto di bene giuridico”, inteso come ragione generale che ha legittimato la promulgazione della legge (nella fattispecie la “tutela della salute della popolazione”) e la nozione di “scopo della norma”, intendendo individuare con questa locuzione il risultato cui è orientata sia la volontà, che l'intenzione ultima del legislatore (la “potenziale diffusione progressiva del mercato illecito e della circolazione di stupefacenti fra la popolazione”).

Si può affermare, dunque, che ci si viene a trovare dinanzi a due momenti di caratterizzazione della norma.

L'uno (la ratio di difesa del bene giuridico) che si può definire statico, mentre l'altro (il fine da ottenere attraverso la applicazione della norma) che si può definire dinamico.

Una condotta può, quindi, risultare soltanto formalmente sussunta nel nomotipo ideale, perchè, al contempo, la sua accertata inoffensività, esclude la sua conformità totale al modello legale e, parimenti, esclude la sua sanzionabilità.

Esempio tipico di questa situazione, si rinviene nella scriminante della detenzione ad uso esclusivamente personale di sostanze stupefacenti.

L'applicazione di tale causa di giustificazione, presuppone la dimostrazione che la condotta detentiva del singolo si sviluppa e si esaurisce nella sfera privatistica del possessore, legittima la operatività della causa di giustificazione.

Altro analogo modello si rinviene nella causa di giustificazione dell'uso di gruppo, riconosciuta dalle SS.UU., al termine di un duro conflitto giurisprudenziale, lo scorso 31 gennaio.

La condotta, che in origine poteva rientrare in un contesto di antigiuridicità, perchè confliggente con il divieto di circolazione di sostanze droganti, scopo perseguito dalla norma, appare, pertanto, priva di offensività.

La distinzione tra i due paradigmi appare, quindi, propedeutica ad introdurre l'elemento qualificante – ai fini che ci occupano – del ragionamento del Supremo Collegio, che consiste nella propugnazione della teoria della interpretazione teleologica (o finalistica) della norma.

In buona sostanza, tale forma di interpretazione normativa esalta il giudizio di  comparazione [fra la condotta (evento o fatto illecito) – da un lato – e la meta finale che la norma intende perseguire e raggiungere] che il magistrato deve operare, onde da ciò inferire la esistenza di una condizione di reale offensività.

 L'individuazione del fine che la norma si prefigge diviene, pertanto, la reale chiave risolutiva del tema dell'offensività concreta della condotta.

Calando le considerazioni che precedono, nel tema degli stupefacenti e, in special modo, nella problematica della coltivazione, appare evidente che lo scopo del dpr 309/90 anche dopo le modifiche apportate dalla L. 49/2006 deve essere individuato in quello di ridurre progressivamente la diffusione, la radicalizzazione e la espansione del mercato illecito e della circolazione di stupefacenti fra la popolazione (fino a pervenire ad un ipotetico futuro azzeramento del bacino di utenza).

I caratteri cui rapportare una coltivazione che si definisca strumentale all'uso personale devono, quindi, essere quelli dell'inidoneità della condotta:

1. a costituire presupposto per l'inserimento sul mercato di nuovo prodotto stupefacente per soddisfare le necessità dei soggetti assuntori;

2.  ad ampliare il quantitativo già circolante nel mercato illecito, aumentando, inoltre, il numero degli utilizzatori.


Attesa questa innegabile premessa, la successiva operazione ermeneutica consiste nel porre in rapporto la condotta tenuta dall’agente, la quale appare conforme al modello legale, disegnato dalla norma sanzionatoria, rispetto allo scopo perseguito da quest’ultima.

Si addiviene, in tal modo, alla cd. interpretazione teleologica della fattispecie incriminatrice, che – come precisato dalla S.C. - pone al centro della propria struttura la volontà che il legislatore ha espresso e gli scopi di tutela che egli si è prefissato.

Il criterio così richiamato, stabilisce, dunque, che il fatto – ipotizzato come illecito -  possa essere ritenuto tipico ed offensivo, solo se esso sia “conforme al modello legale finalisticamente interpretato”.

La coltivazione, quando essa sia ad uso dichiaratamente personale e quando tale intento  risulti concretamente dimostrato, esaurisce la propria funzione produttiva senza alcuna forma di proiezione esterna, tale da potere creare i presupposti per attentare agli scopi della legislazione in materia.

Vale a dire, quindi, che:

a.    ove la coltivazione appaia circoscritta ad un numero di piante estremamente limitato e modico, comunque, del tutto incompatibile con il vero concetto di coltivazione, che coincide naturalisticamente, con quelle attività agrarie propriamente dette, le quali presuppongono caratteri completamente differenti da una coltura di natura domestica, (cfr. GUP Milano, 13 ottobre 2009, Nicastro, che sostiene che “coltivare significa governare un ciclo di preparazione del terreno, semina, sviluppo delle piante e raccolta del prodotto”),
b.    ove le modalità esecutive dell’azione non paiano particolarmente curate sul piano organizzativo o, comunque, esse non siano supportate dall’uso di strumenti tecnologici sofisticati
c.    ove l’ambiente, nel quale la coltivazione viene svolta, sia ubicato in contesti privati e/o abitativi, che precludono un agevole accesso a terze persone,
d.    ove il coltivatore dimostri di essere anche un consumatore non occasionale di derivati della cannabis,
e.    ove difettino – oggettivamente – gli ulteriori elementi probatori, per ritenere che la destinazione del prodotto ricavato dalla coltura possa essere (in tutto od in parte) quella della cessione a terzi,
f.    ove, in conclusione, si possa, sostenere che tutto il percorso coltivativo, inizi, prosegua e si concluda in un contesto assolutamente privatistico, precluso a persone estranee all’agente, ci si deve considerare in presenza di una situazione di evidente inoffensività della condotta, per difetto di congruenza della stessa rispetto agli scopi che la norma persegue.

La discrasia che si potrebbe ravvisare fra i due termini di paragone (condotta materiale e legge formale), ove si avverino le condizioni sopra richiamate, priva l’azione – in astratto conforme al generico modello legale - di quello specifico carattere di tipicità, che la può rendere penalmente rilevante.

Questa è la conclusione cui si può ragionevolmente pervenire, all’esito delle considerazioni operate e che evidenzia, ancor più marcatamente. la vetustà, l’inadeguatezza e la limitatezza dei criteri sin qui utilizzati in giurisprudenza, per formulare il giudizio di concreta offensività della condotta di coltivazione di piante di cannabis.



(Nota di Carlo Alberto Zaina)

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 18 marzo 2013, n. 12612


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CONTI Giovanni - Presidente -

Dott. PAOLONI Giacomo - Consigliere -

Dott. DI STEFANO Pierluigi - Consigliere -

Dott. DI SALVO Emanuel - rel. Consigliere -

Dott. DE AMICIS Gaetano - Consigliere -

 

ha pronunciato la seguente:

sentenza

 

sul ricorso proposto da:

1) F.G. N. IL (OMISSIS);

avverso l'ordinanza n. 1357/2012 TRIB. LIBERTA' di CATANIA, del 17/09/2012;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. EMANUELE DI SALVO;

lette/sentite le conclusioni del PG Dott. Alfredo Pompeo Viola, rigetto del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

1. F.G. ricorre per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame di Catania in data 17-9-12, che, in riforma dell'ordinanza del Gip del Tribunale di Siracusa in data 31-8-12, ha applicato all'indagato la misura dell'obbligo di presentazione per tre volte alla settimana, in ordine al delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per avere coltivato, nel terrazzo e nel cortile della propria abitazione, 2 piante di canapa indiana ed aver detenuto kg 1, 90 di foglie di canapa indiana già essiccate nonchè gr 1,50 di mariuana. In (OMISSIS).

2. Il ricorrente deduce, con il primo motivo, mancanza dei gravi indizi e insussistenza della fattispecie di reato. La sostanza era infatti destinata ad uso personale, come si evince dalla esiguità del dato ponderale, emerso dalle analisi tossicologiche espletate, da cui è risultato un quantum di principio attivo pari a gr 7,102, e dal mancato rinvenimento dei materiali normalmente utilizzati per l'attività di spaccio ( bilancino, bustine ed altro) o di rilevanti somme di danaro. L'involucro rinvenuto dalla p.g. si trovava non nell'abitazione ma in auto: ciò che ne dimostra l'acquisto da terzi e la destinazione al consumo personale da parte dell'indagato. Del resto, il superamento dei limiti tabellari non vale ad invertire l'onere della prova, dovendo comunque essere l'accusa a dimostrare la finalità di spaccio, e il Tribunale non indica alcun elemento al riguardo.

2.1. Con il secondo motivo, si deduce difetto di offensività della condotta di coltivazione, che, qualora venga effettuata per ricavarne sostanza per uso personale, rientra nell'ampio genus della detenzione. Del resto, la fattispecie concreta in disamina, inerendo alla coltivazione di solo due piante, appare veramente minimale e tale da non porre a repentaglio il bene o interesse tutelato dalla norma.

2.2. Con il terzo motivo, si rappresenta che l'incensuratezza dell'indagato e l'esatta valutazione dei fatti incriminati riconducono comunque la fattispecie nei limiti di pena per cui è concedibile la sospensione condizionale.

Si chiede pertanto annullamento dell'ordinanza impugnata.

 

Motivi della decisione

 

3. L'analisi prenderà le mosse dal secondo motivo di ricorso, che è fondato. Ai fini della configurabilità del reato di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti,è infatti necessario accertare la concreta offensività della condotta e cioè l'effettiva capacità della stessa di ledere il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice (Sez. 4^, 28-10- 2008, n. 1222). Spetta quindi al giudice verificare, di volta in volta, se la condotta contestata risulti o meno, in concreto, inoffensiva, tale dovendo ritenersi solo quella che non leda o metta in pericolo, anche in minimo grado, il bene protetto (Sez. 6^, 1-4- 2009, n. 17266, rv 243581). Occorre dunque verificare in concreto l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. In quest'ottica, ciò che assume importanza non è che, al momento dell'accertamento del reato, le piante non siano ancora giunte a maturazione, atteso che la coltivazione ha inizio con la posa dei semi, ma che esse siano idonee a produrre una germinazione ad effetti stupefacenti (Sez. 4^ 8-10-2008 n. 44287, rv 241991). In quest'ordine di idee si colloca la pronuncia, richiamata anche dal giudice a quo, che ha ritenuto che la coltivazione domestica di una piantina di canapa indiana contenente principio attivo pari a mg 16, posta in un piccolo vaso sul terrazzo di casa, costituisca condotta inoffensiva ex art. 49 c.p., che non integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (Sez. 4^, 17-2-2011, n. 25674, rv n. 250721).

4. I principi appena indicati si collocano nell'alveo dell'ampia elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale in tema di offensività.

Come è noto, il principio di offensività ha trovato espresso riconoscimento sia nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che in quella della Corte di cassazione. Il giudice delle leggi ha infatti più volte affermato la rilevanza di questo principio e, pur non esprimendosi in ordine al suo fondamento costituzionale, ha asserito che esso costituisce un canone ermeneutico di fondamentale importanza (cfr., in tal senso, C. cost. 19-26 marzo 1986, n. 62, Von Delleman, in Cass. pen. 1986, p. 1053, in materia di armi ed esplosivi; C. cost. 26 settembre - 6 ottobre 1988, n. 957, Leombruni, ivi, 1989, p. 186, n.162, in tema di sottrazione di minorenni; C. cost. 24-7-95 n. 360, Leocata, in Foro it, 1995, 1^, c. 3086 s.; C. cost. 27-3-92 n 133, Bizzarri, ivi, 1992, 1^, c. 2914 s., entrambe in materia di sostanze stupefacenti).

L'applicazione di questo criterio interpretativo importa, secondo il giudice costituzionale, in primo luogo, l'individuazione del bene tutelato, argomentando "dal sistema tutto e dalla norma particolare (così, letteralmente, C. cost., 19-26 marzo 1986 n. 62 cit., p. 1057); e, in secondo luogo, la valutazione della effettiva lesività del fatto, anche alla luce di elementi successivi alla commissione del reato.

Anche le Sezioni unite (Sez. Un 2- 4-98, Kremi, in Foro it., 1998, 2^, 758), pur esprimendosi nel senso che integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, la cessione a terzi di sostanza stupefacente contenente un principio attivo così modesto da escluderne l'efficacia drogante, in quanto i beni oggetto della tutela penale, individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell'ordine pubblico, sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante, si sono richiamate al principio, affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale, ove la singola condotta sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio i beni giuridici tutelati, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta. Le indispensabili connotazioni di offensività di quest'ultima, implicano, infatti, di riflesso, la necessità che anche in concreto l'offensività sia rawisabile, almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente. In difetto di ciò, la fattispecie verrebbe a refluire nella figura del reato impossibile.

In questa prospettiva si collocano anche varie pronunce di legittimità, ad esempio, in materia di reati di falso (Cfr. ex plurimis, Cass. 4-11-93, Buraccini, in Cass. pen. 1995, 561, che ha statuito che la falsità non è punibile allorchè si riveli in concreto inidonea a ledere l'interesse tutelato dalla genuinità del documento, vale a dire quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico ed appaia del tutto irrilevante ai fini del significato dell'atto e del suo valore probatorio; conf. Cass. 13-11- 1997, Gargiulo, Foro it, 1998, 2^, 318, secondo la quale non è punibile, per inidoneità dell'azione a produrre l'evento dannoso, la falsità che si riveli in concreto inidonea a ledere l'interesse tutelato) ; o di alimenti (cfr, ad esempio, Cass. 12-3-98, Piazza, in Cass. pen., 1999, p. 3209, n. 1676, secondo cui, una volta che la USL abbia rilasciato il parere favorevole, essendo già stata accertata la sussistenza dei prescritti requisiti igienico sanitari, l'esercizio dell'attività dopo tale parere non configura una reale violazione della L. n. 283 del 1962, art. 2, dal momento che il difetto del provvedimento formale di abilitazione, ormai dovuto, non configura alcuna offesa all'interesse tutelato dalla norma).

A quest'ordine di idee possono essere ricondotte svariate pronunce di questa Corte nella materia oggetto della presente disamina, concernente la normativa in tema di sostanze stupefacenti (cfr., ex plurimis, Cass. 1-2-89, Bellinger, in Cass. pen., 1990,1594, secondo la quale, per la sussistenza del reato, occorre che il materiale oggetto della condotta abbia percentuali di tetraidrocannabinolo sufficienti a rendere effettivamente psicoattivo il contenuto della sostanza; conf. Cass. 2-10-89, Biscardi, ivi 1991, 310 nonchè Cass. 1-10-93, El Mehirsi, ivi, 1994, 1659).

5. In un orizzonte concettuale affine a quello in disamina si colloca l'indirizzo ermeneutico volto a valorizzare la ratio dell'incriminazione. Anche questo orientamento muove dall'esigenza di sottrarre all'area della punibilità i c.d. fatti inoffensivi conformi al tipo. Ed è stato rilevato, in dottrina, come le ipotesi di sfasatura tra tipicità ed offesa non siano conseguenza di un'imperfetta formulazione tecnico-legislativa della fattispecie bensì della tensione tra astrattezza normativa e concretezza fattuale. Si ritiene però che non possa essere tanto il concetto di bene giuridico a risolvere i problemi applicativi posti dalle ipotesi di sfasatura quanto lo scopo della norma. Le ipotesi fattuali di discrasia fra tipicità ed offesa non rientrano infatti, secondo questa tesi, negli scopi di tutela della disposizione incriminatrice, per cui la non punibilità del soggetto può essere affermata mediante un'interpretazione teleologica della norma. Si è in tale prospettiva affermato, nella giurisprudenza di merito (Pret. Dolo 10- 2-98, Baratto, in Cass. pen. 1998, p. 2737, n. 1559, concernente una fattispecie in cui un soggetto era imputato del reato di cui alla L. n. 431 del 1985, art. 1 sexies, per avere effettuato lavori consistiti nel solo innalzamento per pochi centimetri dell'ingresso di un garage), che l'interpretazione teleologica della norma incriminatrice rivela che il legislatore ha voluto difendere l'ambiente non da qualsiasi attacco ma solo da quegli attacchi in grado di incidere in misura rilevante sull'oggetto della tutela, onde la condotta in disamina non può integrare gli estremi del reato de quo. L'interpretazione teleologica della fattispecie incriminatrice, incentrata sulla considerazione degli scopi di tutela perseguiti dal legislatore, è infatti espressamente prevista dall'art. 12 preleggi, ed impone di fare riferimento all'intenzione del legislatore. Tale interpretazione induce, nei casi in disamina, ad escludere la tipicità del fatto, in quanto il fatto inoffensivo in realtà non è conforme al modello legale finalisticamente interpretato. Si tratta, come si vede, di un diverso percorso interpretativo che conduce però agli stessi risultati.

6. La tematizzazione di tale profilo è del tutto estranea al tessuto motivazionale del provvedimento impugnato, che si limita a riportare le risultanze degli accertamenti di polizia giudiziaria, i quali hanno condotto al rinvenimento delle 2 piante di canapa indiana, delle foglie già essiccate nonchè della mariuana; nonchè gli esiti della consulenza tossicologica, con l'indicazione del quantum di principio attivo. L'apparato giustificativo del decisum non può però ridursi alla semplice esposizione delle risultanze acquisite, dovendo comunque il giudice a quo trarre una sintesi logica dal materiale probatorio disponibile e dare puntuale risposta alle argomentazioni difensive (Sez. 6^, 11-2-08, n. 34042/07, Napolitano), che, nel caso sub iudice, avevano espressamente posto il problema dell'offensività. Manca, in particolare, l'indicazione del numero di dosi ricavabili ed ogni altro riferimento da cui possa desumersi una pregnante valutazione, da parte del giudice, del profilo inerente alla concreta ed effettiva offensività della condotta.

7. L'accoglimento del secondo motivo rende ultronea la disamina degli altri due motivi di ricorso, dovendosi comunque ribadire l'irrilevanza, ai fini della sussistenza del reato di illecita coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, della finalità di uso personale, conformemente al consolidato orientamento giurisprudenziale richiamato dal giudice di merito.

8. L'ordinanza impugnata va dunque annullata con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Catania, che si atterrà ai principi di diritto di cui al par. 3.

 

P.Q.M.

 

La Corte ANNULLA L'ORDINANZA IMPUGNATA E RINVIA PER NUOVO ESAME AL TRIBUNALE DI CATANIA. Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2013

 

 

da Altalex

 

 

 

 

Venerdì, 04 Ottobre 2013
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