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Corte di Cassazione 28/02/2013

Lieve entità: non è esclusa anche se il pusher ha 200 dosi di ''fumo''

(Cass. Pen. sez. VI, 28 febbraio 2013, n. 9723)

La Sesta Sezione della Suprema Corte di Cassazione affronta, con la recentissima sentenza 9723/13, pubblicata lo scorso 28 febbraio, sia il tema dei limiti di applicabilità ad ipotesi detentive della scriminante dell'uso esclusivamente personale, che quello della configurabilità concreta di fattispecie che giustifichino il riconoscimento della circostanza attenuante  - ad effetto speciale – della lieve entità prevista dal comma 5 dell'art. 73 dpr 309/90.

1) la detenzione ad uso esclusivamente personale : canoni ermeneutici e critiche alla posizione della Corte di Cassazione

Il giudice di legittimità manifesta di condividere ed apprezzare l'intervento della Corte territoriale posto che essa corregge, in appello, l'impostazione, a propria volta, esplicitata dal GUP.

In primo grado, il giudicante pare avere, infatti,  sostenuto la tesi, che declina il principio per cui, attraverso la previsione della locuzione “uso esclusivamente personale”, il  legislatore avrebbe introdotto, allo scopo di dirimere ogni dubbio e creare una regola certa di giudizio – in relazione alla complessa questione della detenzione di stupefacente - una presunzione semplice di carattere negativo.

Stando a tale indirizzo, quindi, ogni qualvolta non fosse stata dimostrata, esclusivamente da parte dell'indagato/imputato, la destinazione finale personale dello stupefacente detenuto, la condotta deve venire classificata come sicuramente illecita, (e, dunque, penalmente rilevante).

A tale conclusione si perverrebbe, in virtù di una valutazione complessiva della condotta, che, peraltro, sia assolutamente svincolata dall'esistenza di prove a sostegno della asserita illiceità.

L'adesione a questa tendenza interpretativa ha sempre – naturalmente – postulato e comportato, in grave deroga ai principi generali del diritto, l'inversione dell'onere della prova, (gravame che, invece, compete alla parte che intenda invocare l'esistenza di un fatto o di un comportamento a sé favorevole o sfavorevole ad altri).

Si verrebbe, così, in modo del tutto inammissibile, ad attribuire alla difesa, l’obbligo di dimostrare la propria innocenza e manlevando, contemporaneamente,  in maniera giuridicamente indebita, l'accusa dal genetico dovere di provare la colpevolezza dell'indagato/imputato.

La sentenza in commento riafferma, invece, quella condivisibile ed auspicabile visione, che assegna all’accusa lo specifico compito di selezionare, raccogliere ed indicare in modo logico (e plausibile) i cd. “elementi di contraddizione”[1] che si reputano frapporsi all’evocata scriminante soggettiva.

Siffatto onere appare, altresì, necessariamente patrimonio anche del giudicante – per quanto di propria competenza –.

La scelta delibativa di ricondurre una condotta detentiva nell’alveo penale piuttosto che in quella della sola rilevanza amministrativa (o viceversa) va , infatti, coniugata, ad avviso della Suprema Corte, attraverso un ampio scrutinio di “tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto-reato”.

Va, però, rilevato che la sentenza in commento suscita un moto di perplessità, laddove essa conferisce al dato ponderale – in relazione al caso concreto (circa 88 grammi lordi) -  un valore sintomatico di assoluta eccedenza rispetto all’intrinseca necessità del singolo detentore, tale, quindi, da escludere l’operatività della causa giustificativa dell’uso personale.

Sull’altare della suggestione fornita dal peso (criterio, che l’esperienza forense ci mostra, invece, come suscettibile di interpretazioni estremamente variabili, se non ondivaghe), vengono, pertanto, così immolati, indicatori, ai quali, invece, in altre occasioni, sono state attribuite autorevoli valenze sul piano probatorio[2].

Ma il dubbio non è circoscritto solo a questa sfaccettatura.

V’è, inoltre, da rilevare che non pare persuasiva e condivisibile la scelta della Corte di affidarsi alla dose media giornaliera, evocata quale parametro, per determinare (o meno) la compatibilità del compendio stupefacente ad un uso esclusivamente personale.

Va, infatti, osservato che in forza di questa opzione, il giudice di legittimità disapplica inspiegabilmente il canone costituito dalla QUANTITA’ MASSIMA DETENIBILE.

Per chiarire i termini della critica, che si va svolgendo, è necessario un breve riepilogo storico.

In funzione della riforma del dpr 309/90, fu insediata dal Ministro della salute dell’epoca (Storace) l’11 febbraio 2006 una commissione scientifica di studio con il compito, tra l'altro, di «definire per ciascuna delle sostanze stupefacenti o psicotrope descritte nella Tabella I "allegata alla legge" i limiti quantitativi massimi di principio attivo riferibili ad un consumo esclusivamente personale»[3].

Va precisato, che pare che, ad espresso giudizio della commissione istituita dal ministro Storace, “…..soltanto uno dei dati elaborati - cioè quello relativo alla dose media singola, intesa come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo - fosse «espressione» di evidenza scientifica”[4].

Accolto tale presupposto, venne, quindi, adottato dal Governo (in carica all’epoca) il decreto 11 aprile 2006, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2006.

Si legge testualmente nelle premesse di tale provvedimento che la commissione «ha osservato che i valori della dose singola efficace sono espressione di evidenza scientifica, mentre permangono margini di incertezza nei valori relativi alla frequenza di assunzione nell'arco della giornata che, a giudizio della stessa commissione, richiedono ulteriori approfondimenti», venendo confermato, così, il giudizio della commissione Storace.

In buona sostanza, balza all’evidenza che gli esperti incaricati non avevano raggiunto alcuna forma di accordo su quello che avrebbe potuto costituire il termine di paragone per definire il concetto  di uso personale.

Se, infatti, utilizzando la dose media giornaliera, si poteva identificare un’unità (quantum) di principio attivo effettivamente drogante, (onde poter accertare, quindi, quando una cessione di sostanza potesse assumere contorni penalmente rilevanti), rimaneva desolatamente irrisolta la questione di quale quantitativo di principio attivo stupefacente potesse, invece, apparire funzionale all’uso personale (ed anche l’arco di tempo nel quale si ipotizzasse l’effettiva possibilità di esaurire il consumo di tale sostanza)[5].

Poiché, però, un simile approfondimento, per la sua complessità, avrebbe comportato, senza ombra di dubbio, un ritardo tutt’altro che lieve, della pubblicazione del nuovo testo legislativo, il Governo intese seguire una via assolutamente e discutibilmente compromissoria per potere inquadrare il concetto di uso esclusivamente personale.

Essa si tradusse nella adozione della formula «allo stato, ai fini dell'attuazione del disposto dell'articolo 73, comma 1-bis, del Testo unico citato, appare opportuno utilizzare i valori relativi alla dose media singola efficace, incrementati in base ad un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza, con particolare riferimento al potere di indurre alterazioni comportamentali e scadimento delle capacità psicomotorie».

Si è, così, giunti a fortiori all’introduzione di quella che è stata definita QUANTITA’ MASSIMA DETENIBILE e che trova la sua esclusiva ragione funzionale nella finalità di disciplinare, proprio le condotte – concernenti gli stupefacenti - che sia vincolate escatologicamente ad un uso personale[6].

Deriva, pertanto, dal complesso delle considerazioni storiche, logiche e giuridiche, che precedono, che l’eventuale adozione giurisprudenziale del canone della dose media giornaliera, in relazione alla condotta detentiva (e, comunque, relativamente all’insieme delle condotte che appaiono strumentali all’uso personale), appare del tutto improprio e, comunque, non corretto, perché non pertinente.

La dose media giornaliera costituisce, infatti, criterio da utilizzare solamente in relazione a comportamenti di cessione a terzi di quantitativi di stupefacenti, onde inferire la reale gravità della condotta  posta concretamente in essere.

Come, pertanto, appare dal complesso delle considerazioni sin qui svolte, nel caso di specie – come, però, anche in altre situazioni recentemente affrontate dal S.C.  - la suddivisione in D.M.G. del quantitativo di stupefacente detenuto dall’imputato, costituisce metodica e procedura per nulla corretta, in quanto offre un risultato aritmetico (le dosi) incompatibile – sia sul piano logico, che su quello strettamente quantitativo - con la condotta oggetto di incriminazione .

2) L'applicazione dell’attenuante ad effetto speciale dell’art. 73, co. 5.

La Corte, intervenendo, poi, sul tema del comma 5° dell’art. 73 dpr 309/90, afferma come l’applicazione di tale circostanza venga governata da canoni assolutamente autonomi rispetto a quelli che vanno adottati per  ravvisare (o meno) la destinazione ad uso personale.

E’ di tutta evidenza che già la definizione “lieve entità” contenga in re ipsa uno dei canoni che si impongono sul piano logico-giuridico per la soluzione del problema e cioè la “minima offensività penale della condotta”.

La circostanza attenuante in questione si sostanzia, come noto, di un insieme di parametri, che vanno esaminati l’uno indipendentemente dagli altri (peso dello stupefacente, modalità o circostanze dell’azione e mezzi utilizzati).

Per costante giurisprudenza, il vaglio in senso negativo anche di uno solo dei parametri di riferimento individuati dalla legge deve condurre ad escludere l'ipotesi del fatto di lieve entità (Cfr. App. Lecce, 5 settembre 2012) .

Appare, dunque, del tutto condivisibile il principio manifestato dalla sentenza, laddove impone che il giudice, in presenza di elementi fattuali di carattere equivoco – in relazione al genetico principio di minima offensività – operi una ricognizione globale di tutti i canoni contenuti nel citato comma 5°.

Il collegio di legittimità, inoltre, riafferma, in modo del tutto inequivoco e tassativo, come il criterio prevalente e centrale, ai fini dell’applicabilità dell’attenuante ad effetto speciale in oggetto, sia rinvenibile nel peso della sostanza.

Ove la stessa non appaia “considerevole” (aggettivo testualmente usato in sentenza), vale a dire quando il dato ponderale, di per sé solo, non risulti idoneo ad escludere la possibilità, per l’imputato, di invocare l’operatività del temperamento sanzionatorio fornito dalla circostanza delle lieve entità, solo la presenza di altri indici (tra quelli stabiliti ex lege) che risultino incompatibili con un giudizio finale e complessivo di minima offensività, può costituire utile e efficace riferimento motivo.

Il recupero dei criteri sussidiari, solo in assenza di una decisiva capacità dell’aspetto ponderale di porsi – in uno specifico caso - quale unico ed esclusivo elemento condizionante in senso negativo il giudizio di riconoscimento della circostanza attenuante, dimostra, al di là delle varie considerazioni che hanno affollato la giurisprudenza, come il giudizio sulla fattispecie attenuata, non pare potere prescindere dal ricorso a tranquillizzanti riferimenti aritmetici (sia in senso favorevole, che in senso negativo)[7].

(Nota di Carlo Alberto Zaina)

 

Note

[1] Affermazione testuale utilizzata dalla sentenza in commento

[2] V. ex plurimis Cass. VI, 10-01-2013, n. 6571 per la quale il solo dato del superamento del limite quantitativo di cui al citato decreto ministeriale non può costituire ragione per ritenere dimostrato lo spaccio di droga. Ed ancora Trib. Perugia, 16-11-2012 Ma.Fa. Il mero rinvenimento della sostanza, seppure in quantità superiore alla soglia massima, non può ritenersi di per sé, sufficiente a dedurre la finalità di spaccio potendo, essa, essere consumata dall'imputato, tossicodipendente, sebbene nell'arco di alcuni giorni o settimane. Il mero dato quantitativo del superamento dei limiti tabellari previsti dall'art. 73, non vale ad invertire l'onere della prova a carico dell'imputato, ovvero ad introdurre una sorte di presunzione, sia pure relativa, in ordine alla destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale, dovendo il giudice valutare globalmente, sulla base di ulteriori parametri, se le modalità di presentazione e le altre circostanze dell'azione siano tali da escludere una finalità esclusivamente personale della detenzione.

[3] V. www.leg15.camera.it Camera dei deputati riassunto stenografico della Seduta n. 76 di domenica 19 novembre 2006

[4] idem

[5] Il dato temporale a tutt’oggi rimane una incognita estremamente variabile

[6] L'allegato al decreto, intitolato «Limiti massimi previsti dall'articolo 73, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, modificato dalla legge n. 49/2006», elenca, in ordine alfabetico, le 170 sostanze della Tabella I del Testo unico sugli stupefacenti; per circa 50 di queste sostanze, accanto alla denominazione comune e alla denominazione chimica, vengono indicate, in tre distinte colonne, da sinistra verso destra, la dose media singola in milligrammi, il moltiplicatore ed i quantitativi massimi in milligrammi (soglia), cioè i limiti quantitativi per uso esclusivamente personale previsti dal citato articolo 73 del Testo unico. Dalla colonna relativa al moltiplicatore si evince subito che sono stati previsti valori diversi (due, tre, cinque, dieci o venti), a seconda delle sostanze prese in considerazione..

[7] Trib. Firenze Sez. I, 30-08-2012, Be.Ka.Mo., Incorre nell'imputazione per il reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti il prevenuto che illecitamente cedeva ad un terzo tre boccette di metadone cloridrato mettendo inoltre in vendita una bustina di eroina del perso di 3 grammi lordi. La fattispecie ascritta è riconducibile all'ipotesi attenuata di cui al comma 5° dell'art. 73 potendo riconoscersi l'attenuante in questione, solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta deducibile sia da dato qualitativo che quantitativo della sostanza, sia dagli altri parametri indicati dalla norma come i mezzi, le modalità, le circostanze dell'azione. Nel caso di specie appare evidente che il quantitativo della sostanza rinvenuta nella disponibilità dell'imputato e quella effettivamente ceduta in uso con modalità rudimentali, consentono certamente di ritenere integrata la fattispecie attenuata della lieve entità.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 28 febbraio 2013, n. 9723


Svolgimento del processo - Motivi della decisione


1. All'esito di giudizio abbreviato incondizionato il g.u.p. del Tribunale di Lecce con sentenza emessa il 25.10.2007 dichiarava S.L. colpevole del delitto di illecita detenzione per uso non esclusivamente personale di grammi 88 netti di marijuana, idonei (giusta consulenza chimica del p.m.) al confezionamento di 200 singole dosi droganti. Per l'effetto il S. era condannato, concessegli le attenuanti generiche, alla pena di due anni e nove mesi di reclusione ed Euro 12.000,00 di multa.

Fatto criminoso accertato il 3.9.2006 in San Donato di Lecce allorchè, come spiega la sentenza del g.u.p., militari dell'Arma procedevano a rituale controllo identificativo del S., fermo in ora notturna a bordo della sua autovettura "in zona isolata solitamente frequentata da assuntori e spacciatori di stupefacenti", e rinvenivano occultato sotto il sedile del passeggero del veicolo un involucro di plastica contenente la sostanza risultata poi essere marijuana.

Il giudice di merito valutava infondata la tesi difensiva dell'imputato, giovane militare di carriera solito tornare dai familiari nel Salente il sabato e la domenica, che deduceva di aver acquistato lo stupefacente poco prima del controllo di p.g. per suo esclusivo consumo personale, essendo quella la prima volta in cui intendeva "provare" la marijuana di cui non aveva mai fatto uso in precedenza. Osservava il g.u.p. che la quantità di droga sequestrata al S., dieci volte superiore alla quantità massima detenibile ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 - comma 1 bis, risultava incompatibile con un preteso consumo esclusivamente personale e con l'asserito "primo acquisto" della sostanza addotto dall'imputato.

2. Giudicando sull'impugnazione del S., la Corte di Appello di Lecce con la suindicata sentenza del 18.10.2010 ha confermato la decisione di condanna di primo grado, ritenendo privi di pregio i rilievi critici dell'appellante (destinazione della droga al consumo personale; imputato stabilmente occupato e non avente necessità di spacciare droga; mancato ritrovamento nella perquisizione domiciliare di strumenti e oggetti connessi a probabile attività di vendita di droga).

Ad avviso dei giudici del gravame le connotazioni del fatto integrante la regiudicanda persuadono della sua rilevanza penale, poichè nei confronti del prevenuto si stagliano almeno due indici, alternativamente previsti dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1 bis, sintomatici di un uso non esclusivamente personale della sostanza stupefacente caduta in sequestro. L'indice della quantità del principio attivo presentato dalla sostanza (mg. 5.016 di THC puro secondo il consulente), largamente superiore al limite massimo consentito "per la presunzione di uso personale" dal decreto 11.4.2006 del Ministro della Sanità. L'indice del peso lordo complessivo della sostanza, di poco inferiore ad un etto. Indici che le prospettazioni difensive dell'imputato non sono state in grado di contrastare validamente.

Privilegiando il dato dell'indicato elemento quantitativo dello stupefacente detenuto dal S., reputato assorbente di ogni altra evenienza modale della condotta, la sentenza di appello ha altresì escluso che la sua illecita condotta possa essere definita di lieve entità ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, dell'art. 73, comma 5.

3. Con il ministero del difensore S.L. ha impugnato per cassazione la sentenza di secondo grado, articolando i seguenti tre motivi di censura per violazione di legge (processuale e sostanziale) e per vizi della motivazione.

3.1. Nullità della citazione in appello dell'imputato.

Pacifica emergendo in atti la qualità di militare in servizio permanente effettivo del S. (ne danno atto le due sentenze di merito), le notifiche degli atti processuali all'imputato risultano regolarmente eseguite ex art. 158 c.p.p. presso la caserma di Sabaudia sede del servizio militare fino all'udienza preliminare del 25.10.2007. In quella sede l'imputato ha depositato, previa lettura, una propria memoria scritta con allegati, con cui ha dichiarato di prestare servizio a Gorizia presso la caserma (OMISSIS).

Nonostante tale "indicazione e dichiarazione" del luogo di effettivo servizio (e residenza) dell'imputato, la Corte di Appello ha notificato l'avviso di fissazione dell'udienza di appello presso la caserma di (OMISSIS) e, non essendo andata a buon fine la notifica dell'atto per l'irreperibilità del destinatario, ha disposto la notifica dello stesso avviso ai difensori dell'imputato a norma dell'art. 161 c.p.p., comma 4.

Alla prefissata udienza del 18.10.2010 la Corte territoriale, non essendo comparso l'imputato, non ne ha dichiarato la contumacia ed ha trattato il giudizio di appello.

Nel discende che tale giudizio è affetto da insanabile nullità, travolgente gli atti successivi (sentenza) per violazione dell'art. 158 c.p.p. (in rel. art. 178, lett. c), artt. 179 e 185 c.p.p.), poichè nel caso di specie non poteva trovare applicazione la disciplina dettata dall'art. 161 c.p.p., comma 4, per la notifica degli atti all'imputato, dovendo essere esperita la peculiare procedura complessa di notificazione prevista dall'art. 158 c.p.p. per l'imputato militare in s.p.e. (Cass. Sez. 6, 3.5.1994 n. 9897, Pananti, rv. 199156; Cass. Sez. 1, 8.2.2001 n. 13577, Antonelli, rv.

218737).

3.2. Erronea applicazione del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, e illogicità manifesta della motivazione. Incongruamente i giudici di appello hanno ritenuto, sulla scia della prima decisione, la destinazione in tutto o in parte alla cessione a terzi della sostanza sequestrata all'imputato. Il giudizio della Corte territoriale è frutto di una illazione (escludente l'uso personale della sostanza drogante addotto dall'imputato) e si pone in contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità, antecedente e successiva alla riforma del D.P.R. n. 309 del 1990 avvenuta nel 2006, secondo la quale la detenzione pura e semplice anche di notevoli quantità di stupefacenti non costituisce di per sè reato, non sussistendo alcun limite quantitativo oltre il quale la detenzione dovrebbe ritenersi automaticamente illecita. Per sostenere la penale rilevanza della detenzione di droga D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ex art. 73, comma 1 bis, non basta il superamento dei limiti ponderali richiamati da tale norma, occorrendo che il giudice prenda in considerazione ogni altra circostanza dell'azione suscettibile di accreditare una presunta destinazione della droga ad un uso non esclusivamente personale del soggetto agente.

Entrambe le decisioni di merito hanno valorizzato il solo dato quantitativo della marijuana in possesso del ricorrente, negando ogni peso ad una serie di altre circostanze accreditanti la tesi difensiva dell'uso personale delineata dal S..

3.3. Violazione del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5.

Non prendendo in considerazione i rilievi subordinati espressi con l'atto di appello sulla concedibilità dell'attenuante del fatto lieve, i giudici di secondo grado hanno attribuito decisivo valore al dato ponderale della sostanza stupefacente detenuta dall'imputato per giustificare il diniego dell'attenuante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5. Ma, come affermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, l'elemento quantitativo non può considerarsi come unico ed esclusivo criterio valutativo della riconoscibilità o non dell'attenuante in parola, apparendo necessario tener conto, segnatamente quando il dato ponderale non assuma - come nel caso del ricorrente - peculiare spessore, anche dei mezzi, delle modalità o delle circostanze dell'azione che possono contribuire a delineare la concreta offensività del fatto reato. Non può ignorarsi, allora, che la sostanza stupefacente sequestrata al S. appartiene al genere delle droghe c.d. leggere (marijuana) e non risulta definita da un alto indice di purezza, che l'imputato non solo è immune da precedenti penali e non è mai stato coinvolto in vicende di droga, ma dispone di un lavoro stabile e gode di rispettabile condizione sociale.

4. Il ricorso proposto nell'interesse di S.L. è meritevole di accoglimento unicamente con riguardo al terzo subordinato motivo di impugnazione concernente il diniego della attenuante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, sì che la sentenza va in parte qua annullata, rinviandosi gli atti al competente giudice di appello per un nuovo giudizio su tale tema.

Gli altri motivi di ricorso non hanno fondamento.

4.1. Inconsistente è, innanzitutto, la doglianza relativa alla pretesa nullità della vocatio in iudicium dell'imputato per l'appello definito dalla sentenza impugnata. La dedotta violazione dell'art. 158 c.p.p. in tema di prima notificazione di atti processuali ad un imputato militare e le massime di giurisprudenza evocate nel ricorso sono inconferenti nel caso di specie.

Va subito premesso che la Corte territoriale - al contrario di quanto si afferma nel ricorso - non avrebbe dovuto dichiarare alcuna contumacia del S. nel giudizio di appello celebrato in sua assenza. Il giudizio si è svolto, infatti, con rito camerale, l'appello dell'imputato avendo investito una decisione resa nelle forme del rito abbreviato (artt. 598 e 599 c.p.p.). Nella procedura camerale disciplinata dall'art. 127 c.p.p. l'imputato è libero di comparire o non nel giudizio, che legittimamente può svolgersi in sua assenza, salvo che lo stesso non chieda espressamente e per tempo di intervenire. Di conseguenza nel giudizio di appello avverso decisioni pronunciate con rito abbreviato non può trovare applicazione l'istituto della contumacia dell'imputato (cfr.: Cass. Sez. 1,19.6.2007 n. 25097, Chakhsi, rv. 236841; Cass. Sez. 2, 9.2.2010 n. 8040, Fiorito, rv. 246713).

Tanto chiarito, nessuna irregolarità invalidante il procedimento di appello è ravvisabile in riferimento alla citazione in giudizio dell'imputato. Tale conclusione è resa agevole dall'esame degli atti processuali consentito a questa S.C. in ragione della natura di error in procedendo dello specifico vizio di legittimità dedotto dal ricorrente.

E' che nel manoscritto depositato dal S. all'udienza preliminare del 25.10.2007 questi indica di prestare, a quella data, servizio a Gorizia. Ma si tratta di semplice indicazione discorsiva e incidentale insuscettibile di essere apprezzata, per gli effetti di cui agli artt. 157 e 161 c.p.p., come dichiarazione di domicilio in senso tecnico.

In primo luogo la dichiarazione di domicilio è una manifestazione di volontà e atto personalissimo dell'indagato o imputato avente natura negoziale processuale, che va compiuto in maniera espressa nelle puntuali forme previste dal codice di rito, sì da non essere altrimenti surrogabile (cfr., ex multis, Cass. Sez. 6, 19.11.2010 n. 42916, Saas, rv. 248827). In secondo e congiunto luogo, la generica indicazione domiciliare contenuta nel memoriale manoscritto dal S. neppure può reputarsi - a tutto concedere - idonea a modificare la precedente rituale indicazione domiciliare dell'imputato presente in atti e in nome della quale la Corte di Appello ha disposto la notificazione della citazione in giudizio del S.. In vero l'imputato risulta aver formalizzato una rituale dichiarazione di domicilio a (OMISSIS) in data 4.9.2006 davanti ai Carabinieri di San Cesareo all'atto della sua rimessione in libertà (disposta dal p.m. ex art. 389 c.p.p.). Dichiarazione di domicilio presso la locale caserma di appartenenza che ha ribadito a (OMISSIS) il 20.9.2006 (giusta comunicazione al p.m. in pari data del comandante del suo reggimento militare, segnalante altresì che dalla data di arresto il S. "è stato perso dalla forza effettiva e transitato nella forza assente del reggimento".

Ne discende, allora, che - a fronte della sua formale pregressa dichiarazione di domicilio - incombeva all'imputato l'onere di segnalare o comunicare nelle forme di legge il mutamento o la revoca della precedente dichiarazione domiciliare. Di tal che, divenuto impossibile notificare il decreto di citazione in appello al dichiarato domicilio, correttamente si è fatto ricorso alla procedura di notificazione ex art. 161 c.p.p., comma 4.

4.2. Il secondo motivo di ricorso afferente alla contestata sussistenza del reato di illecita detenzione di droga per finalità non esclusivamente personali è affetto da palese infondatezza.

Affatto erroneo è l'assunto del ricorrente che sostiene la non punibilità, anche alla luce della novellata disciplina degli stupefacenti introdotta dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, della detenzione di sostanze stupefacenti quale che possa esserne la quantità, ove non sussistano prove escludenti un uso non personale delle sostanze.

Giustamente correggendo l'impostazione valutativa del g.u.p. (supposta presunzione semplice di un uso non personale della droga), la Corte salentina ha espunto il campo d'indagine da ogni eventuale presunzione di illecito uso dello stupefacente, chiarendo come il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1 bis, punisca la detenzione di sostanza drogante che "appaia destinata ad un uso non esclusivamente personale", quando la sostanza detenuta ecceda i limiti quantitativi massimi previsti per ogni tipo di sostanza dal Ministero della Salute ovvero quando un siffatto uso personale sia contraddetto dalle modalità di presentazione della sostanza stupefacente (peso lordo complessivo, confezionamento frazionato) o da altre circostanze dell'azione di varia natura. Elementi di contraddizione che vanno provati dall'accusa e che nel caso di specie risultano suffragati sia per il dato ponderale della marijuana in possesso dell'imputato in quantità superiore a quella lecitamente detenibile per consumo personale dell'agente, sia per il significativo indice del peso lordo della stessa sostanza.

Nè la sentenza di appello ha trascurato le emergenze lumeggiate dalla difesa dell'imputato a sostegno della destinazione della droga al solo suo uso, poichè - con motivazione lineare e logica, scevra da errori di diritto - ha sottolineato: l'irrilevanza del mancato frazionamento della droga in più confezioni commerciabili e della mancanza di strumentazione per solito connessa all'attività di spaccio (non potendosi escludere, anche in ragione del non minimo quantitativo di droga detenuto, che l'imputato intendesse suddividere in prosieguo la sostanza ed eventualmente cederla in tutto o in parte ai commilitoni al suo rientro a Sabaudia, il fatto reato essendo stato accertato la domenica sera del 3.9.2006); l'inconferenza dello stato di incensuratezza del prevenuto e del suo stato sociale, pena il rischio di valutare il fatto in base all'inaccettabile criterio del tipo di autore; l'incongruenza dell'acquisto di 200 dosi di sostanza drogante all'asserito scopo di usarla da solo, a tal fine occorrendo un paio di mesi, "durante i quali la sostanza si sarebbe degradata" per la volatilità del principio attivo della canapa indiana).

Non può non inferirsi, quindi, che la decisione confermativa della penale responsabilità del ricorrente adottata dalla corte territoriale, immune da discrasie, si è conformata ad ormai consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte regolatrice, successivo alla riforma normativa del 2006, in materia di elementi rivelatori della destinazione allo spaccio, in tutto o in parte, delle sostanze stupefacenti. Tale destinazione è stata apprezzata dalla Corte di Appello di Lecce tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto-reato alla stregua di parametri deduttivi suscettibili di sindacato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Connotazioni entrambe estranee alla decisione della Corte salentina, atteso che - fermo restando l'incombere dell'onere della prova dello spaccio sull'accusa - non è contestabile che l'eccedente superamento dei limiti ponderali della quantità detenibile di stupefacente (secondo i novellati criteri di cui alla D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1 bis), quale quello registrato nel caso del S., diviene fonte di intrinseca dimostrazione dell'illiceità della detenzione di sostanza drogante, prevalente sugli altri indici eventualmente utilizzabili. Di guisa che il consistente numero di dosi munite di effetti droganti ricavabili dalla sostanza stupefacente ben può valutarsi come significativo e importante indice della destinazione della sostanza ad un uso non unicamente personale dell'agente (cfr.: Cass. Sez. 6, 2.4.2008 n. 27330, P.M. in proc. Sejal, rv. 240526; Cass. Sez. 6, 12.2.2009 n. 12146, P.M. in proc. Delugan, rv. 242923; Cass. Sez. 3, 2.10.2012 n. 43496, Romano, rv. 253607).

4.3. Assistito da fondamento, come anticipato, deve valutarsi il subordinato motivo di ricorso riguardante il diniego della circostanza attenuante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5. Fondatezza del motivo di censura sia in rapporto alla omessa o soltanto sommaria disamina da parte dei giudici di appello delle circostanze di fatto, incidenti sull'apprezzamento della gravità e del disvalore della condotta illecita, enunciate nell'atto di appello del S.. Sia in rapporto alla incompleta verifica dei canoni di riferimento precisati dalla giurisprudenza di questa S.C. per il riconoscimento o meno dell'attenuante del fatto lieve.

Se non è revocabile in dubbio che l'attenuante speciale in parola può essere ravvisata solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato quantitativo e qualitativo della sostanza stupefacente oggetto di reato, sia dagli altri parametri richiamati dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5 (mezzi, modalità, circostanze dell'azione), con la conseguenza che, quando anche uno soltanto di tali indici risulti "negativamente assorbente", si rende trascurabile l'eventuale presenza degli altri indici ed ogni altra inferenza diviene ultronea ai fini della decisione sull'attenuante speciale (v., da ultimo:

Cass. S.U., 24.6.2010 n. 35737, P.G. in proc. Rico, rv. 247911), deve rilevarsi che la decisione impugnata appare lacunosa - sul piano della logicità della motivazione-proprio sullo specifico giudizio di preminente "assorbenza" del dato ponderale e qualitativo della sostanza oggetto dell'illecita detenzione ascritta al ricorrente S.. Dato ponderale, per altro di per sè non esorbitante (200 dosi di "fumo") e non trascendente una ragionevole soglia di valore economico, tale da rendere necessaria una previa analisi comparativa della compresenza di altri indici sintomatici della tenuità del fatto antigiuridico e del loro correlarsi ai fini del globale giudizio sulla concreta offensività della condotta penalmente rilevante del prevenuto.

In vero, se la circostanza attenuante D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ex art. 73, comma 5, non può essere applicata quando la quantità di stupefacente si riveli senz'altro "considerevole", sì da accreditare una significativa potenzialità offensiva del fatto e la diffusività dell'opera di spaccio, appare necessario - allorchè la sostanza risulti, come nel caso di specie, rilevante ma certo non imponente - procedere ad una valutazione globale ed onnicomprensiva di rutti gli elementi o indici di riconoscibilità indicati dalla citata disposizione. Vale a dire di quelli attinenti all'azione illecita, cioè ai mezzi, alle modalità e alle circostanze della stessa, e di quelli attinenti all'oggetto materiale del reato, cioè alla quantità e alla qualità delle sostanze stupefacenti oggetto di imputazione (cfr. ex multisi Cass. Sez. 6, 22.4.2010 n. 18927, Osiebo, n.m.; Cass. Sez. 4, 27.5.2010 n. 31663, Ahmetaj, rv. 248112;

Cass. Sez. 6, 1.7.2010 n. 29250, Moutawakkil, rv. 249369; Cass. Sez. 4, 22.12.2011 n. 6732/12, P.G. in proc. Sabatino, rv. 251942).

Si impone, quindi, sul punto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio degli atti alla Corte di Appello di Lecce, perchè proceda - in diversa composizione - a un nuovo e più meditato giudizio sulla ravvisabilità o meno nella condotta del ricorrente della circostanza attenuante speciale prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5. Nuovo giudizio che colmi le segnalate lacune della motivazione, tenendo conto dei principi e criteri valutativi dianzi precisati.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce.

Rigetta nel resto il ricorso.


Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2013

 

 

da Altalex

 

 


 

Giovedì, 28 Febbraio 2013
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