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Corte di Cassazione 18/04/2012

500 grammi di droga? Non si può presumere la finalità di spaccio

(Cass. Pen., sez. III, sentenza 13 gennaio 2012, n. 919)

Ritengo che la sentenza 13 gennaio 2012, n. 919 si ponga (e possa essere, quindi, considerata) come un caso di vera e propria estrema evoluzione interpretativa - una sorta di provocazione ermeneutica, (probabilmente involontaria ed incidentale) - del concetto di detenzione punibile di sostanza stupefacenti.

La pronunzia, infatti, criticando e censurando le carenze motivazionali dell’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame, afferma la indefettibile necessità che l’esame della condotta detentiva avvenga, avendo riguardo a tutte quei canoni valutativi che il legislatore ha introdotto con la novella del 2006, nessuno escluso.

Ma il significato della decisione non si ferma qui, perchè vi è, però, molto di più!

La Suprema Corte si sofferma, infatti, specificatamente su alcuni altri controversi profili, che hanno fatto versare, a tutt’oggi, fiumi di inchiostro a giurisprudenza e dottrina, senza, peraltro, addivenire a soluzioni univoche.

La sentenza cioè:

1) esclude che, a seguito della L. 49/2006 sia stata introdotta un’inversione onere della prova in ordine alla destinazione allo spaccio dello stupefacente;

2) afferma che il dato ponderale deve essere assoggettato ad un generale criterio di equiparazione sostanziale, rispetto a qualsiasi altro fra gli indicatori contenuti nel comma 1 bis dell’art. 73 dpr 309/90;

3) riconnette particolare importanza alla indagine valutativa concernente sia la tipologia di confezionamento (unico involucro), sia l’assenza – o la presenza - di strumenti per il taglio dello stupefacente e per la pesatura dello stesso, elementi sintomatici di un successiva diluizione e moltiplicazione del quantitativo originario;

4) ritiene non eludibile la valutazione della condizione di tossicomania del detentore, delle sue effettive condizioni economiche, onde comprendere se le stesse siano compatibili con l’acquisto di un certo quantitativo di stupefacente, nonchè della presunta convenienza del rapporto quantità-prezzo, che legittima la cd. “scorta”.

1. Non è un principio inedito che debba essere il PM a provare la destinazione allo spaccio dello stupefacente e non l’inverso.

E’ questo, assioma sacrosanto ed irrinunciabile, allo stato, però, troppo discontinuo nella sua applicazione, pur nella convinzione che, negli ultimi anni, si sia stratificato l’auspicabile orientamento di assoluta ortodossia al principio dell’onere della prova.

Significativa in proposito, è, infatti, la pronunzia della Sez. VI, 12 febbraio-19 marzo 2009, n. 12146 [(rv. 242923), Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento c. D.G., in CED Cassazione, 2009, Riv. Polizia, 2009, 10-11, 709] che ha statuito che “In materia di stupefacenti, il mero dato quantitativo del superamento dei limiti tabellari previsti dall'art. 73, comma primo-bis, lett. a), d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, non vale ad invertire l'onere della prova a carico dell'imputato, ovvero ad introdurre una sorta di presunzione, sia pure relativa, in ordine alla destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale, dovendo il giudice globalmente valutare, sulla base degli ulteriori parametri indicati nella predetta disposizione normativa, se le modalità di presentazione e le altre circostanze dell'azione siano tali da escludere una finalità esclusivamente personale della detenzione.” [conf. ex plurimis Cass. Sez. IV, sentenza 17 dicembre 2007-21 aprile 2008, n. 16373].

Una seria e concreta realizzazione di tale principio, presuppone, dunque, di addivenire ad un’armonizzazione di fondo della legge sugli stupefacenti, la quale, invece, per converso, opera, sulla base di una presunzione juris tantum di destinazione allo spaccio dello stupefacente detenuto.

Vale a dire che - ancor prima della disamina dei canoni di ausilio ermeneutico, introdotti con la L. 49/2006 - la valutazione da cui l’esegeta muove è, purtroppo, quella del sospetto di un destinazione allo spaccio della sostanza detenuta.

Si tratta, dunque, di uno schema di ordine mentale, che si pone in irreversibile contraddizione con la regola generale dell’onere della prova, e, dunque, una situazione che crea indubbi imbarazzi interpretativi e che le successive modifiche del T.U. sugli stupefacenti, in epoca posteriore alla L. 685/1975 non hanno saputo (o voluto) risolvere.

D’altronde, una modifica che avesse introdotto una presunzione di segno opposto a quella attualmente vigente, non avrebbe potuto suscitare, sul piano giuridico, nessuno scandalo, proprio perché conforme al postulato su cui si fonda il nostro ordinamento costituzionale, la presunzione di non colpevolezza.

Allo stato attuale, invece, viviamo un paradosso processuale, che la giurisprudenza tenta di risolvere contingentemente dando – come giusto – preferendo al criterio generale dell’onere della prova.

2. Il parametro dato dal peso dello stupefacente – dopo numerose oscillazioni giurisprudenziali, ora nel senso di conferire importanza decisiva, ora in senso opposto – pare avere definitivamente perso quel carattere di assoluta decisività prognostica, che lo rendeva un unicum differente e, comunque, prevalente su tutti gli altri canoni[1].

Il Supremo Collegio, Sez. VI, con la sentenza 18 settembre - 16 ottobre 2008, n. 39017 [(rv. 241405), Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Bologna c. C.G. in CED Cassazione, 2008] ha, infatti, ribadito l’esistenza, in capo “..al giudice un dovere di rigorosa motivazione quando ritenga che dagli altri parametri normativi (modalità di presentazione, peso lordo complessivo, confezionamento frazionato, altre circostanze dell'azione) si debba escludere una destinazione ad un uso non esclusivamente personale, pur in presenza del superamento dei suddetti limiti massimi”, con ciò conferendo una valenza paritaria anche agli altri canoni legislativi, che, inizialmente parevano confinati in un ruolo subordinato.

Rimane, comunque, a monte di ogni interpretazione che si intenda proporre, un problema metodologico di assoluta e decisiva importanza, vale a dire che l’attuale interpretazione data dalla giurisprudenza, la quale supera il dettato della norma (che avrebbe circoscritto la detenzione alla dose media giornaliera, secondo i criteri tabellari), costituisce una supplenza contingente, nell’insipienza del legislatore.

La assoluta precarietà di tale intervento interpretativo, viene confermata dalla considerazione che esso potrebbe essere destinato ad essere agevolmente superato, anche in modo repentino ed improvviso, ovviamente in caso di mutazione soggettiva dell’orientamento indicato, circostanza tutt’altro che inusuale o remota, non essendo – nella fattispecie – in presenza di un dato normativo.

La stessa pronunzia che si esamina in questa sede, come detto all’inizio, non sfugge ad influenze di carattere soggettivo.

Essa appare, quindi, molto particolare ed estrema, in quanto ipotizza – in linea teorica e giurisprudenzialmente inedita (non si ricordano, infatti, prese di posizione analoghe) - che anche un quantitativo tutt’altro che modico e, comunque, affatto limitato come quello di 500 grammi di sostanze stupefacente, possa rientrare nel concetto di detenzione personale, ove anche gli altri fattori interpretativi, che il T.U. stup. prevede, non risultino ostativi a tale prognosi.

Di fronte ad un’applicazione così plastica ed oggettiva del principio di ininfluenza del connotato ponderale, se inteso in re ipsa, parametro che (bene o male) anche seppure circoscritto, aveva funto da bussola, in presenza di quantitativi del tipo di quello oggetto dell’imputazione (ed anche in casi minori, comunque, sempre superiori ai 50 grammi lordi), non si può rimanere inerti ed accettare tout court una simile soluzione del problema.

E’ necessaria, infatti, una soluzione legislativa, che eviti che l’applicazione di un principio teoricamente giusto e corretto, possa degenerare, però, come pare potrebbe accadere nella fattispecie, in soluzioni di potenziale impunità, che non sembrano accettabili, perché ontologicamente incompatibili con la detenzione ad uso personale.

L’esperienza forense[2] ci ha insegnato che è plausibile anche la costituzione di una piccola scorta (“quantità non esigue”), ma, francamente, pare di difficile comprensione l’assimilazione di quantitativo quale in questione alla categoria dell’uso personale.

La soluzione da adottare, per porre termine, quantomeno, a denunziato stato di incertezza deve essere di natura legislativa.

Due sono ad avviso di chi scrive le soluzioni possibili.

O si depenalizza qualsiasi condotta detentiva, qualunque sia il peso dello stupefacente detenuto – intraprendendo una pericolosissima deriva, che favorirebbe la proliferazione di sacche di illegalità –, oppure, più preferibilmente, si cerca di stabilire in maniera meno empirica un limite aritmetico-ponderale per la detenzione.

Chiunque può comprendere che la seconda auspicata soluzione costituisce una coperta corta, ma pur sempre un contributo maggiormente praticabile alla soluzione dela questione.

Non credo, infatti, vi siano altre opzioni serie.

Con la scelta di fissare limiti quantitativi, infatti, non vi sono rischi di proliferazione ed aumento della circolazione e diffusione degli stupefacenti, perché è dato reale e di esperienza che il crimine organizzato continuerà il proprio business, importando ed esportando, detenendo, producendo o cedendo quantitativi di droga certamente superiori a quelli che potrebbero formare oggetto della previsione.

E’ bene precisare che la soluzione sin qui esposta, non sta affatto a proporre od a significare, quindi, l’introduzione di una presunzione di non punibilità juris et de jure, in favore di chi detenesse un certo quantitativo di droga, normativamente predeterminato.

In realtà, il parametro la cui introduzione si auspica, servirebbe a circoscrivere e rendere tassative le fattispecie nelle quali, il giudice, in presenza di ulteriori canoni valutativi favorevoli all’indagato/imputato, potrebbe operare fattivamente la delibazione in ordine alla configurabilità dell’uso personale.

3. Il depotenziamento del valore assoluto – sul piano probatorio - riconnesso al profilo ponderale, permette – in pari tempo – di conferire rilevo ed importanza alla indagine valutativa che venga a riguardare sia il tipo di confezionamento (specialmente in ipotesi di un unico involucro), sia l’assenza – o la presenza – di quegli strumenti per il taglio dello stupefacente e per la pesatura dello stesso, cioè di elementi che risultano sintomatici di un successiva diluizione e moltiplicazione del quantitativo originario di droga.

Si tratta di paradigmi, oggetto di particolare valorizzazione da parte della novella del 2006 e, certamente hanno prodotto effetti di carattere positivo, permettendo l’introduzione, all’interno della dinamica processuale, di ulteriori criteri decisori, che permettono di pervenire ad un giudizio finale di maggiore completezza in punto al carattere ed alla rilevanza penale della condotta di detenzione.

La sentenza in esame, quindi, non deroga affatto a tale condivisibile indirizzo, anzi, essa conferisce agli stessi (e nello specifico alla loro presenza od assenza ed alla metodologia del confezionamento) valore fortemente sintomatico, che condiziona le conclusioni da formulare[3].

4. Ultimo aspetto, potenzialmente esimente, su cui appare opportuno soffermarsi brevemente, è quello concernente i parametri economici, vale a dire quell’insieme di indicatori, che possono indurre il giudice ad affermare che la detenzione dello stupefacente è destinata ad uso personale, in quanto l’agente – che sia abituale assuntore - possiede una capacità economico-finanziaria congrua in relazione al quantitativo rinvenuto nella sua disponibilità.

Si deve osservare che questo indirizzo, maturato nel tempo ha sempre più condizionato le valutazioni dei giudici – v. ad esempio Trib. Napoli, 6 aprile 2009, che assume tra i criteri per la valutazione prognostica della destinazione della sostanza anche “…le condizioni di reddito del detentore e del suo nucleo familiare…” -, divenendo, così, a pieno titolo canone ermeneutico tutt’altro che secondario.

Appare, però, necessario che il ricorso all’uso di tale parametro tenga in debito conto alcuni elementi fattuali, che la quotidiana esperienza presenta.

I parametri puramente economici possono assumere una valenza meramente teorica, si da privarli di concreta significanza, e renderli vani, ove non consideri che :

a) il prezzo di cessione dell’hashish e della marjiuana in special modo (ma anche delle droghe pesanti) appare obbiettivamente non elevato, sicchè anche quantitativi non modicissimi non comportano affatto esborsi rilevanti.

Si può affermare, quindi, che acquisti di tali sostanze possono venire affrontati, attraverso la costituzione, in tempi brevi, di riserve di danaro all’uopo destinate;

b) è evidente che anche il commercio illecito della droga, segue criteri puramente mercantili e, dunque, si adegua a logiche di sconto del prezzo praticato in proporzione al quantitativo di droga fornito, si da indurre all’acquisto di quantitativi non limitati, attraverso un meccanismo di cospicua riduzione od abbattimento del prezzo, in questo si esplicita il rapporto “quantità/prezzo”;

c) il limite dell’argomento-esimente “scorta”, riposa nella natura dello stupefacente (in particolare hashish o marjiuana), il quale, spesse volte, non essendo stato trattato chimicamente, ma costituendo diretto risultato di una coltivazione – talora puramente biologica – è portato ad un naturale degrado ed ad un’altrettanto naturale consunzione.

Sicchè si dovrebbe, a fini prognostici, anche valutare il tempo di conservazione del prodotto, vale a dire entro quanto tempo un certo quantitativo possa essere assunto od utilizzato in modo da produrre effetti stupefacenti.

Vi è, poi, da considerare che un’eventuale scelta consistente nell’ancorare in modo automatico ed acritico la non punibilità della detenzione dello stupefacente (e la sua destinazione ad un uso esclusivamente personale) alla disponibilità di danaro da parte dell’agente, o, meglio, alla sua capacità di produrre un reddito di natura lecita, determinerebbe - pertanto – una palese disparità di trattamento sotto svariati profili.

In primo luogo, come detto, così opinando – dal punto di vista oggettivo - verrebbero poste sul medesimo piano condotte tra loro ontologicamente e radicalmente differenti e caratterizzate da un diversa carica di offensività, legato, ovviamente, al profilo ponderale.

Il comparare come omologhi quantitivi tra loro all’evidenza differenti (ad esempio alcune decine con alcune centinaia di grammi o, addirittura, con qualche chilo), sol perché il detentore – in assenza di quegli elementi che, a mente del comma 1 bis dell’art. 73, dpr 309/90) inducano ad ipotizzare una destinazione parziale o totale allo spaccio della sostanza – appare in grado di giustificare l’acquisto, appare intuitivamente opzione di difficile, se non impossibile, configurazione giuridica.

In secondo luogo, a cascata, deriva anche la considerazione che la punibilità o la non punibilità del singolo detentore-assuntore subirebbe il condizionamento del censo dell’indagato/imputato.

Dunque, una vera e propria discriminazione fra persone oggettivamente ed originariamente nella medesima condizione di tossicomania (con sospetti di contrasto con l’art. 3 Costituzione), posto che in una simile impostazione, verrebbe valorizzato un dato che non necessariamente – in presenza di quantitativi tutt’altro che esigui – dimostra la finalizzazione a scopi personali della detenzione e che verrebbe premiato in ammissibilmente lo status economico e/o sociale.

La condizione di possesso di risorse economiche, idonee a giustificare la disponibilità anche di quantitativi rilevanti, comunque eccedenti i criteri di modicità, di per sé sola, non potrebbe (e non dovrà) mai, quindi, apparire risolutiva.

Soprattutto potrebbe divenire un pericoloso – quanto apparente – presupposto, atto a falsare la realtà, creando, così, in capo a taluni soggetti, situazioni di impunità.

Si pensi solo alla elementare circostanza che sodalizi criminosi potrebbero fare sempre più uso, quali detentori, di persone che, pur assuntori, siano incensurate e si trovino in condizione di abbienza, onde eludere “legalmente” il divieto ex lege di accumulo di quantitativi non limitati (e, comunque, logicamente e giuridicamente incompatibili anche con il concetto di scorta).

** *** **

La pronunzia della Suprema Corte, quindi, pone molti interrogativi, ma soprattutto ripropone la necessità di mettere mano in modo serio ed articolato ad un progetto complessivo di revisione della normativa vigente in materia di stupefacenti.

(Nota di Carlo Alberto Zaina)

_______________

[1] Ciò non di meno, permangono talora ancora indirizzi seguaci della valorizzazione del profilo ponderale, vedi ad esempio Uff. indagini preliminari Napoli Sez. VII, 13-12-2010, n. 2771 In tema di detenzione e spaccio di stupefacenti, qualora il dato ponderale della droga superi il limite rappresentato da una soglia ragionevole di valore economico ed il dato quantitativo della sostanza stupefacente assuma valore preponderante per il giudizio, diviene irrilevante la valutazione di ogni altro elemento.

[2] Cass. Sez. VI Sent., 01-10-2008, n. 40575 (rv. 241522) , Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento c. M.F.

[3] Sul punto esplicativa appare la sentenza Trib. Bari Sez. II, 26 luglio 2011, in www.leggiditalia.it “Incorre nell'imputazione per il reato di detenzione di sostanza stupefacente, ai fini di spaccio, il prevenuto che detenga sostanze psicotrope di tipo hashish che per modalità di confezionamento e rinvenimento appare destinata allo spaccio. Nel caso di specie, rivelano la finalità di spaccio il rinvenimento, nell'abitazione del prevenuto degli strumenti atti alla preparazione della sostanza oltre a due piantine di marijuana coltivate, già estirpate ed in fase di essiccamento, un tritaerba, un bilancino di precisione, un taglierino, delle banconote di piccolo taglio nascoste in una confezione ed una lista di nominativi con delle cifre indicanti i pagamenti. Tutti questi elementi, complessivamente valutati, escludono che possa parlarsi di uso personale della sostanza rinvenuta, in quanto sintomatici di un'attività organizzata a procurarsi numerose confezioni di stupefacenti destinati alla vendita.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

Sentenza 1° dicembre 2011 - 13 gennaio 2012, n. 919

Svolgimento del processo

 

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso - L'ordinanza oggetto del presente ricorso ha confermato il provvedimento del G.i.p. con cui era stata disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti dell'odierno ricorrente accusato di avere detenuto 500 gr. di hashish per uso non esclusivamente personale.

Avverso tale decisione, l'indagato ha proposto ricorso, tramite il difensore deducendo:

1) erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e dell'art. 273 c.p.p. nonchè mancanza di motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e)). Ciò, in quanto la destinazione allo spaccio deve essere provata dall'accusa e, sotto tale profilo, nè il G.i.p. nè il Tribunale per il Riesame avrebbero motivato adeguatamente.

Tale finalità è stata, infatti, desunta dal dato ponderale che è stato ritenuto, per così dire, auto evidente al punto da trascurare di motivare ulteriormente su altri aspetti. In particolare, la difesa dell'indagato - che aveva da subito ammesso di avere acquistato la droga da tale R. - richiama l'attenzione sul fatto che l'involucro sequestrato al D.S. combaciava perfettamente con l'altro involucro trovato nell'abitazione di R.. In ogni caso, perciò, la droga era confezionata in un unico involucro, manca qualsiasi rinvenimento di sostanza da taglio o di strumenti idonei alla pesatura. Inoltre, visto che il ricorrente si è dichiarato da subito tossicofilo ed ha spiegato di avere acquistato quel quantitativo perchè più conveniente, non risulta essere stata fatta alcuna indagine sulle disponibilità patrimoniali nè sulle condizioni soggettive del D.S..

2) violazione di legge e carenza di motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in rel. agli artt. 274 e 275 c.p.p.) in quanto anche sotto il profilo delle esigenze cautelari si registrerebbe una motivazione apparente, generica (perchè sostenuta in pari misura per i due indagati, nonostante la diversità di posizione) e, per di più, frutto di una doppia valutazione sempre dello steso dato, la asserita gravità del fatto, (laddove diverso è il caso di chi detenga 500 gr. di droga appena comprata e chi ne abbia kg. 3,700 a casa). Anche in punto di adeguatezza della misura, la motivazione è solo formale perchè lo stesso accenno all'unico precedente per violazione dell'art. 650 c.p. (con la conclusione che esso testimonia una tendenza alla inosservanza delle regole) non è decisivo. Ed infatti, si fa notare che l'assunto è solo astrattamente valido in quanto la circostanza che taluno sia stato condannato per violazione dell'art. 650 c.p. per non avere, ad esempio, ottemperato all'invito impostogli di esibire la patente non autorizza a ritenere che non sarebbe in grado di rispettare gli obblighi connessi con un regime di arresti domiciliari.

Il ricorrente conclude per l'annullamento dell'ordinanza impugnata.

 

Motivi della decisione

 

2. - Il ricorso è fondato. Le censure che esso muove sono, infatti, puntuali e pertinenti e, soprattutto, pongono l'accento sul vizio motivazionale di fondo del provvedimento che è assertivo e meramente ripetitivo dell'ordinanza del G.i.p. senza replica alle obiezioni mosse con il ricorso al Tribunale per il Riesame.

In particolare, nell'ordinanza impugnata, si riscontra una inosservanza dei criteri che sono stati ripetutamente indicati da questa S.C. in tema di valutazione della destinazione della droga (se, cioè, a fine d'uso personale o di cessione a terzi).

E' stato, infatti, asserito anche abbastanza di recente (sez. 6, 19.4.00, D'incontro, n. 6282) che ogni qualvolta la condotta dell'agente non appaia indicare l'immediatezza del consumo, la verifica di tale ipotesi è effettuata dal giudice di merito tenendo conto di una pluralità di parametri "come la quantità, la qualità e la composizione della sostanza, anche in rapporto al reddito del detentore e del suo nucleo familiare nonchè la disponibilità di attrezzature per la pesatura o il confezionamento della sostanza oltre che, sulla base delle concrete circostanze del caso".

Ciò non risulta essere avvento nella specie ove si è valorizzato esclusivamente il dato ponderale prescindendo anche da una più attenta considerazione delle peculiarità del caso come, ad esempio, le circostanze di rinvenimento della droga, pur documentate in modo dettagliato dal servizio di osservazione della p.g. e dalle risultanze di perquisizioni e sequestro (non solo al D.S. ma anche a quello che verosimilmente era stato il cedente della droga a lui rinvenuta).

Sorvolando, poi, sull'assenza di qualsivoglia riscontro investigativo circa le disponibilità dell'indagato (e, quindi, la compatibilità con l'ipotesi della "scorta"), il Tribunale si è limitato a replicare che la quantità era "troppa per un uso personale".

Nè vale obiettare che la tesi difensiva sia stata, a sua volta, meramente asserita perchè è noto che compete all'accusa dimostrare la finalità di spaccio.

In altri termini, la destinazione della droga al fine di cessione deve, quindi, essere argomentata facendo riferimento ad elementi oggettivi univoci e significativi tra i quali rientra senza dubbio il quantitativo della droga sequestrata ma unitamente ad altri dati quali, ad esempio, il rinvenimento dello strumentario che lo spacciatore tipicamente utilizza per il confezionamento delle dosi (bilancino, cartine, ecc.) la ripartizione in dosi singole pronte per la distribuzione, le modalità di detenzione della droga (sez 6, 1.4.03, Grisolia; Sez. 6, 13.11.08, Perrone, Rv. 241604). E' Stato, infatti, anche precisato (Sez 6, 2.4.08, Sejjal, Rv. 240526) che il semplice superamento dei imiti quantitativi massimi consentiti per la detenzione a fini personali non vale ad invertire l'onere della prova a carico dell'imputato, o ad introdurre una sorta di presunzione, sia pure non assoluta, in ordine alla destinazione della droga. Al contrario, si impone, per il giudice un dovere accentuato di motivazione nella valutazione del parametro della "quantità".

La inadeguatezza della motivazione in punto di gravi indizi, si ripropone anche per quanto attiene alla valutazione delle esigenze cautelari e della misura più appropriata.

Sotto il primo aspetto, è senza dubbio censurabile - come sottolinea il ricorrente - il fatto che il Tribunale abbia accomunato nel medesimo giudizio chi, come il D.S., deteneva 500 gr. di stupefacente e chi, invece, ne deteneva kg. 3,700 (senza tralasciare di considerare anche le differenti modalità di detenzione: per il D.S., praticamente per strada ed in un momento in cui risultava avere appena acquistato, per l'altro, custodita in casa, in vari locali). Tra l'altro, lo stesso Tribunale per il Riesame da per scontato che la droga detenuta da D.S. provenisse dall'involucro sequestrato presso il garage dell'altro indagato, R..

Ugualmente giustificate e logiche appaiono le considerazioni critiche che il ricorrente muove, nel secondo motivo, alla motivazione dell'ordinanza impugnata per quel che attiene alla scelta della misura non potendo certo apparire "dirimente", ai fini della esclusione di un regime meno afflittivo di arresti domiciliari, la sottolineatura del precedente per violazione dell'art. 650 c.p..

In buona sintesi, tutti i parametri di valutazione che i giudici di merito avrebbero dovuto prendere in considerazione sono stati sostanzialmente ignorati e ciò rende il provvedimento impugnato sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della mancanza di motivazione. Essa deve, infatti, ravvisarsi anche in casi, come quello in esame, in cui l'organo di impugnazione adito si è sottratto al proprio dovere di controllo dell'ordinanza oggetto di ricorso, limitandosi a ribadire puramente e semplicemente le argomentazioni del G.i.p. ed ignorando le opposte obiezioni della difesa del'indagato che richiamavano l'attenzione sulla necessità di tener conto altri dati per una valutazione più completa ed approfondita.

Si impone, quindi, un annullamento dell'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Catania per nuovo esame alla luce dei rilievi critici fin qui svolti.

 

P.Q.M.

 

Visti gli artt. 615 e segg. c.p.p. annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Catania per nuovo giudizio.

Visto l'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter ordina che a cura della cancelleria, sia trasmessa copia del presente provvedimento al direttore dell'istituto penitenziario competente per gli adempimenti di cui all'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.

 

 

da Altalex

 

Mercoledì, 18 Aprile 2012
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