La
Cassazione ha confermato l’estensione dell’area della risarcibilità
del danno c.d. "ingiusto", comprendendovi espressamente anche
il danno subito a causa della morte di un parente, comprensivo dell’aspetto
non patrimoniale. "Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel
quale assume posizione preminente la Costituzione (che, all’art.
2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), il
danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva
di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona…".
La
Suprema Corte ritiene indennizzabile anche l’impossibilità di avere
rapporti sessuali
Risarcibile il danno da morte del coniuge
Chi venga privato dell’affetto e del sostegno del coniuge a causa di
un incidente dal quale derivi la morte ha diritto al risarcimento del
danno biologico e morale. La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione
ha confermato l’estensione dell’area della risarcibilità del danno
c.d. "ingiusto" (cioè derivante da fatto illecito), comprendendovi
espressamente anche il danno subito a causa della morte di un parente
- coniuge ma anche altro congiunto - comprensivo dell’aspetto non patrimoniale
e morale. La Suprema Corte ha passato in rassegna l’evoluzione degli orientamenti
giurisprudenziali che hanno dapprima aggiunto alla categoria dei danni
risarcibili il c.d. "danno biologico" - cioè quello all’integrità
psico - fisica della persona - e, successivamente, il danno morale (in
alcune pronunce, la Cassazione ha addirittura considerato risarcibile
il danno derivante dall’impossibilità di avere rapporti sessuali
con il coniuge rimasto vittima di un incidente), dichiarando - in quest’ultima
pronuncia - certamente risarcibile il danno sofferto a causa della morte
causata da un comportamento illecito altrui. (5 novembre 2003)
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile,
sentenza n. 12124/2003
La corte suprema di cassazione
Sezione Terza Civile
sentenza
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO. Accertata giudizialmente la responsabilità
del dr. E. G. per il decesso del sig. S. P., il Tribunale di Udine condannò
il professionista e la USL n. 8 Bassa Friulana al pagamento in favore
della vedova del defunto (E. G.) di somme di danaro a titolo di danno
patrimoniale e morale, nonché di altra somma in favore del figlio
(L. P.) a titolo di danno morale.
Nessun risarcimento da danno morale venne riconosciuto a D. C. e ad
A. P., rispettivamente nuora e nipote del defunto.
In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’appello
di Trieste condannò i medesimi al pagamento in favore della G.
di un’ulteriore somma di denaro a titolo di danno patrimoniale,
nonché a corrisponderle sulle dette somme liquidatele in primo
e secondo grado (da rivalutarsi annualmente dalla data del decesso)
gli interessi legali dal fatto, annualmente, via via rivalutate.
Medesima statuizione la Corte territoriale ha reso con riferimento alle
somme liquidate a titolo di danno morale.
Il Commissario liquidatore della soppressa USL propone ora ricorso per
la cassazione della sentenza della Corte trentina, articolando cinque
motivi.
Rispondono con controricorso al G., il P. e la C. (questi ultimi per
se e quali esercenti la potestà sul figlio P.A., i quali propongono,
altresì, ricorso incidentale, svolto in tre motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE. I ricorsi vanno riuniti, ai sensi dell’art.
335 c.p.c., siccome proposti contro la medesima sentenza.
Con il primo motivo del ricorso principale il Commissario liquidatore
della USL, nel lamentare la violazione e falsa applicazione degli artt.
1223, 2043, 2056 c.c. [1], censura quella parte della sentenza che ha
escluso la possibilità di detrarre dal risarcimento del danno
l’ammontare della pensione percepita dal coniuge del defunto, atteso
che il trattamento pensionistico trae la sua fonte e la sua ragione
giuridica da un titolo completamente diverso dall’illecito costituente
la ragione della domanda in esame.
Il ricorrente sostiene, invece che nel determinare il risarcimento deve
tenersi conto della pensione di reversibilità, senza necessità
di far riferimento al compensatio lucri cum damno, ma tenendo presente
che, in linea di principio, il patrimonio dell’offeso non po’
conseguire, attraverso il risarcimento del danno, più di quanto
ne abbia sofferto e che l’attribuzione economica in questione consente
al superstite danneggiato di evitare o limitare il danno patrimoniale
che gli sarebbe potuto derivare dalla perdita di quella porzione di
pensione che il defunto gli avrebbe corrisposto a titolo di alimenti.
Per corroborare la sua tesi il ricorrente prospetta due casi (a suo
dire analoghi a quello in esame) in cui la giurisprudenza ha riconosciuto
l’incidenza sul risarcimento delle attribuzioni patrimoniali pervenute
successivamente all’evento dannoso: si tratta della posizione del
coniuge superstite che contragga nuove nozze e del lavoratore dipendente
che dopo l’infortunio continui a percepire lo stipendio.
Riconoscimento che andrebbe, dunque, esteso anche all’ipotesi oggi
in esame (la quale, peraltro, manifesterebbe anche maggior rilievo,
nella considerazione che le nuove nozze del coniuge superstite costituiscono
un fattore meramente eventuale, mentre il diritto alla pensione di reversibilità
sorge per legge all’atto stesso del decesso del coniuge), posto
che, quando a seguito del fatto illecito interviene un evento di qualsiasi
natura in se idoneo ad elidere in tutto o in parte il danno, della sua
incidenza deve tenersi conto, indipendentemente dal fatto che l’evento
stesso sia o meno conseguenza immediata e diretta dell’illecito
e, quindi, dell’operatività della compensatio lucri cum
damno.
Il motivo è fondato e va respinto.
è consolidato l’orientamento di questa Corte regolatrice
nel ritenere che i danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dal
coniuge di persona deceduta a seguito di fatto illecito (ravvisabili
nella perdita di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità
economiche che, sia in relazione ai precetti normativi di cui agli artt.
143, 433 cod. civ. sia la pratica di vita improntata a regole etico-
sociali di solidarietà e di costume, il defunto avrebbe presumibilmente
apportato) assumono l’aspetto del lucro cessante, ed il relativo
risarcimento è collegato ad un sistema presuntivo a più
incognite, costituite dal futuro rapporto economico tra i coniugi e
dal reddito presumibile del futuro, ed in particolare dalla parte di
esso che sarebbe stata destinata al coniuge.
La prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione
compiuta sulla scorta di dati ricavabili dal notorio e dalla comune
esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti
che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle
necessità del coniuge o avrebbe apportato al medesimo utilità
economiche anche senza che ne avesse bisogno.
La stessa giurisprudenza afferma pure che il principio della compensatio
lucri cum damno trova applicazione solo quando sia il pregiudizio che
l’incremento patrimonialedipendano dal medesimo fatto, sicchè,
in caso di morte di una persona cagionata dall’altrui illecito,
non rileva che il coniuge diventi titolare di pensione di reversibilità,
fondando tale attribuzione su un titolo diverso dall’atto illecito
(tra le tante e più recenti, cfr. Cass. 25 marzo 2002, n. 4205).
Come s’è visto il principio della compensazione del guadagno
con il danno (di storiche origini ma privo di supporto normativo) presuppone
che si il lucro, sia il danno discendano ciascuno, con un nesso di causalità
diretta, dal medesimo evento lesivo.
Si suppone, cioè, che quest’ultimo possa apportare, per
un verso, un depauperamento del patrimonio del danneggiato e, per altro
verso, il suo arricchimento; sicchè, le due conseguenze possono
prevalere l’una sull’altra, fino ad elidersi a vicenda.
Ancora più a monte domina l’altro principio secondo cui
il risarcimento non può costituire una locupletazione per il
danneggiato, nel senso che il suo patrimonio deve risultare ripristinato
dall’intervento risarcitorio nella stessa quantità che aveva
prima del fatto lesivo, ma non certamente arricchito.
Di qui il sospetto, introdotto dal ricorrente, che il cumulo tra il
risarcimento del danno patrimoniale in favore del coniuge superstite
della vittima del fatto illecito e la percezione da parte del coniuge
stesso della pensione di reversibilità comporti un indebito arricchimento,
che, invece, non si verificherebbe se della pensione stessa fosse tenuto
conto, come componente attiva, nella determinazione del menzionato danno.
A fugare tale sospetto basti riflettere sulla circostanza che il diritto
alla pensione viene maturato dal lavoratore nel corso dell’attività
lavorativa ed, alla cessazione di questa, viene da lui goduto per il
resto della sua esistenza.
Al cessare della vita, il diritto alla pensione già maturato
(sia ancora in corso l’attività lavorativa o non lo sia)
viene riservato (per una parte corrispondente circa alla metà)
in favore del coniuge superstite.
Ciò avviene in ragione di un principio solidaristico e sulla
presunzione che l’assegno pensionistico veniva utilizzato (o sarebbe
stato utilizzato, nel caso in cui la vita cessi quando l’attività
lavorativa è ancora in corso) per far fronte alle esigenze esistenziali
del lavoratore stesso e del suo coniuge (sul punto, cfr. Corte Cost.
4 novembre 1999, n. 419 e tutta la giurisprudenza di questa Suprema
Corte in tema di ripartizione dell’assegno pensionistico tra coniuge
divorziato e coniuge superstite del lavoratore defunto).
Così posta la questione, è agevole rilevare come sia errato
affermare che l’azione causatrice del danno abbia, attraverso la
soppressione della vita altrui, per un verso depauperato la posizione
del coniuge superstite e, per altro verso, l’abbia arricchito.
Infatti, s’è già detto che il diritto alla pensione
matura in capo alla vittima nel corso di tutta la sua vita lavorativa.
La morte del lavoratore (o del pensionato) fa riversare parzialmente
quel diritto in capo al coniuge, che, in quel momento, ne diventa titolare.
Si tratta, dunque, di un’attribuzione propria del coniuge superstite
a far data dall’evento lesivo.
Diversa cosa è, invece, il diritto che lo stesso superstite ha
di percepire dal danneggiante il risarcimento dei danni patrimoniali
futuri sofferti a causa del decesso del coniuge e ravvisabile, come
s’è visto, nella perdita di quei contributi patrimoniali
o di quelle utilità economiche che, sia in relazione ai precetti
normativi di cui agli artt. 143, 433 cod. civ., sia per la pratica di
vita improntata a regole etico- sociali di solidarietà e di costume,
il defunto avrebbe presumibilmente apportato.
Sicchè, per determinare questo danno si tiene conto del reddito
della vittima al momento della morte (proiettando per tutto il resto
del tempo per il quale lo avrebbe presumibilmente prodotto se la sua
vita non fosse stata soppressa), nonché di quanta parte di quel
reddito veniva apportato in favore del coniuge.
Ciò senza tema di un ingiustificato arricchimento, posto che
non ci si può ingiustificatamente arricchire di quel che è
già proprio.
Nel caso di specie, si trattava di vittima già in pensione al
momento del decesso e che, oltre a percepire il relativo reddito, si
procurava altri proventi in nero.
Sommati questi all’assegno di pensione, il giudice ha correttamente
stimato di doverne attribuire la metà al coniuge superstite.
Dal raffronto dell’ipotesi oggi trattata con i casi del coniuge
superstite che contrae nuove nozze o del lavoratore che, rimasto infortunato
per fatto illecito del terzo, abbia continuato a percepire, durante
il periodo di invalidità, l’intera retribuzione dal proprio
datore di lavoro (e non deduca di aver dovuto rinunciare a lavoro straordinario,
trasferte etc., ovvero di aver subito pregiudizi nella carriera), non
è possibile, dunque, trarre le conseguenze che il ricorrente
principale prospetta.
La contrario, è proprio quel raffronto a dimostrare l’univocità
della linea logico- giuridica seguita dalla giurisprudenza.
In questi ultimi due casi, infatti, il danno patrimoniale non s’è
verificato affatto (come per il lavoratore che continua a percepire
lo stipendio), oppure è stato ridotto o eliso del tutto (come
per il superstite che, passato a nuove nozze, ricava apporti dal nuovo
coniuge in misura uguale o minore a quelli che il coniuge defunto gli
forniva).
Tant’è che la stessa giurisprudenza esclude che il principio
secondo cui, nella determinazione del danno contrattuale o extracontrattuale
bisogna tenere conto dell’eventuale vantaggio che il fatto illecito
abbia procurato al danneggiato, non potendo il risarcimento risolversi
in un arricchimento, sia applicabile automaticamente con riguardo a
quello che il coniuge della persona deceduta in un sinistro eventualmente
trae contraendo nuove nozze; perché queste, ancorchè siano
possibili, in quanto il soggetto, a seguito del fatto illecito, ha riacquistato
lo stato libero, sono legate ad un nesso di causalità solo occasionale
alla morte del coniuge, trattandosi di un fatto relativo alla persona,
che trae la sua origine e le sue motivazioni nella sfera più
generale ed intima della persona stessa.
In tale ipotesi, pertanto, si afferma che la detta attinenza deve essere
valutata in concreto al fine di accertare in quali effettivi limiti
il pregiudizio derivato da fatto illecito sia stato eliminato (Cass.
4 febbraio 1993, n. 1384).
Nell’ipotesi ora in trattazione, invece, la percezione di un provento
(la pensione di reversibilità) avente tutt’altra radice
causale rispetto all’infortunio non rileva affatto sulla di reintegrare
un contesto patrimoniale infranto a causa dell’atto illecito.
La trattazione dei motivi secondo, terzo, quarto e quinto del ricorso
principale, che concernono i criteri adottati dal giudice per la rivalutazione
degli interessi sugli importi liquidi a titolo di risarcimento del danno
patrimoniale e morale, va necessariamente rinviata all’esito dell’esame
del ricorso incidentale.
Infatti, censurando quest’ultimo i criteri adottati dal giudice
per la determinazione e liquidazione del danno patrimoniale e di quello
non patrimoniale, l’eventuale suo accoglimento comporterebbe l’assorbimento
dei menzionati motivi del ricorso principale.
La G. il P. e la C. (questi ultimi per se e quali esercenti la potestà
sul figlio P. A.) lamentando, nel ricorso incidentale, i vizi della
motivazione, nonché la violazione di tutte le norme fondamentali
che presiedono alla liquidazione del danno.
In particolare, con il primo motivo censurano la sentenza per aver proceduto
alla liquidazione del danno patrimoniale mediante un calcolo nel quale
viene inserito un coefficiente relativo all’età del defunto
del tutto anacronistico (10.464), trattandosi dell’applicazione
di tabelle redatte nel 1922, allorquando la vita media delle persone
del Paese era di 44 anni.
Il motivo è fondato e va accolto.
La sentenza, che respinge tale doglianza, già proposta in grado
d’appello, sostenendo che i coefficienti di cui al R.D. n. 1403
del 1922 sarebbero gli unici ad avere il carattere dell’ufficialità,
mentre quelli proposti dagli eredi della vittima (si trattava dei coefficienti
riportati nel n. 5/90 dei Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura)
sarebbero privi di tale carattere e, quindi, inattendibili al calcolo
in questione, va cassata sul punto, dovendosi ribadire che, nel procedere
alla liquidazione del danno futuro, il giudice del merito può
far ricorso alle tabelle di cui al R.D. n. 1403 del 1922, oppure ricorrere
alle regole di equità di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., trattandosi
di criteri (peraltro integrabili tra loro) non tassativi e costituendo
tale scelta un giudizio di merito che, se congruamente motivato, è
insindacabile in sede di legittimità.
Nel caso in cui, però, faccia ricorso alle menzionate tabelle
del 1922, il giudice deve tener conto dell’aumento della vita media
sopravvenuto rispetto a quell’anno, in modo da adattare il risultato
tabellare alle condizioni attualmente esistenti (per ultima, cfr. Cass.
31 luglio 2002, n. 11376).
La sentenza va, pertanto, cassata in relazione a questo punto ed il
giudice del rinvio procederà ad una nuova liquidazione del danno
patrimoniale che, pur attraverso l’applicazione delle menzionate
tabelle, tenga conto dell’attuale durata della vita media.
Con il secondo motivo, i ricorrenti incidentali censurano quel punto
della sentenza nel quale si afferma che non può essere riconosciuto
un danno patrimoniale per perdita del rapporto parentale e del godimento
del congiunto, posto che tale danno non avrebbe alcuna autonomia rispetto
al danno biologico (che comprende in se ogni danno alla persona) ed
al danno morale (che rappresenta il pretium doloris).
Quanto al primo, il giudice ha rilevato la mancata prova di lesione
fisico- psichica subita dai coniugi in conseguenza della morte del P.;
quanto al secondo, ne ha rilevata l’adeguata liquidazione da parte
del primo giudice (£120 milioni, in favore della moglie, e £
60 milioni, in favore del figlio).
I ricorrenti obiettano che esisterebbe un vero e proprio danno da uccisione
che va risarcito in favore dei congiunti della vittima per la perdita
della presenza e del godimento della persona cara; danno (qualificato
anche edonistico o parentale) che avrebbe un preciso valore patrimoniale
e risiederebbe nella perdita di uno status coniugale o parentale, con
totale alterazione della restante vita dei superstiti.
Il motivo è fondato e va accolto, sebbene nei limiti di cui appresso
si dirà.
Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art.
2059 c.c. (danni non patrimoniali), secondo cui: il danno non patrimoniale
deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.
All’epoca dell’emanazione del codice civile (1942) l’unica
previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era
racchiusa nell’art. 185 del codice penale del 1930.
Ritiene il Collegio che la tradizionale, restrittiva lettura dell’art.
2059, in relazione all’art. 185 c.p., come diretto ad assicurare
tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente,
al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito
integrante reato (interpretazione fonda sui lavori preparatori del codice
del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza), non può
essere ulteriormente condivisa.
Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione
preminente la Costituzione (che, all’art. 2, riconosce e garantisce
i diritti inviolabili dell’uomo), il danno non patrimoniale deve
essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui
sia leso un valore inerente alla persona.
Tale conclusione trova sostegno nella progressiva evoluzione verificatasi
nella disciplina del settore, contrassegnata dal nuovo atteggiamento
assunto, sia dal legislatore che dalla giurisprudenza, in relazione
alla tutela riconosciuta al danno non patrimoniale, nella sua accezione
più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti
alla persona non connotati da rilevanza economica (in tal senso, v.
già Corte cost. 26 luglio 1979, n. 88).
Nella legislazione successiva al codice si rinviene un cospicuo ampliamento
dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale
anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione
di valori personali.
Tra i vari, cfr. l’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (risarcimento
anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà
personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie); l’artt.
29, comma 9, della legge 31 dicembre 1996, n. 675 (impiego di modalità
illecite nella condotta di dati personali); l’art. 44, comma 7,
del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (adozione di atti discriminatori per
motivi razziali, etici o religiosi); l’art. 2 della legge 24 marzo
2001, n. 89 (mancato rispetto del termine ragionevole di durata del
processo).
Appare inoltre significativa l’evoluzione della giurisprudenza
di legittimità, sollecitata dalla sempre più avvertita
esigenza di garantire l’integrale riparazione del danno ingiustamente
subito, non solo nel patrimonio inteso in senso strettamente economico,
ma anche nei valori propri della persona (art. 2 Cost.).
In proposito, va anzitutto richiamata la rilevante innovazione costituita
dall’ammissione a risarcimento (a partire da Cass. 6 giugno 1981,
n. 3675) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale (diverso
dal danno morale soggettivo) che è il danno biologico; formula
con la quale si designa l’ipotesi della lesione dell’interesse
costituzionalmente garantito (art. 32 Cost.) all’integrità
fisica e psichica della persona.
Non ignora questa Corte che la tutela risarcitoria del c.d. danno biologico
viene somministrata in virtù del collegamento tra l’art.
2043 c.c. e l’art. 32 Cost., e non già in ragione della
collocazione del danno biologico nell’ambito dell’art. 2059,
quale danno non patrimoniale, e che tale costruzione trova le sue radici
(cfr. Corte Cost.., 14 luglio 1986, n. 184) nell’esigenza di sottrarre
il risarcimento del danno biologico (danno non patrimoniale) al limite
posto dall’art. 2059 (norma nel cui ambito ben avrebbe potuto trovare
collocazione, e nella quale, peraltro, una successiva sentenza della
Corte Costituzionale, la n. 372 del 1994, ha ricondotto il danno biologico
fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).
Ma anche tale orientamento, non appena ne sarà fornita l’occasione,
merita di essere rimeditato.
Nel senso del riconoscimento della non coincidenza tra il danno non
patrimoniale previsto dall’art. 2059 e il danno morale soggettivo,
va altresì ricordato che questa Suprema Corte ha ritenuto risarcibile
il danno non patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal
danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche; soggetti
per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento
psicologico in termini di patemi d’animo (v., da ultimo, Cass.
3 marzo 2000, n. 2367).
Si deve quindi ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo
il riconoscimento della lata estensione della nozione danno non patrimoniale,
inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non
più solo come danno morale soggettivo.
Non sembra, tuttavia, proficuo ritagliare all’interno di tale generale
categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo:
ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento,
in riferimento all’art. 2059, è l’ingiusta lesione
di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi
non suscettivi di valutazione economica.
Venendo ora alla questione cruciale del limite al quale l’art.
2059 del codice del 1942 assoggettata il risarcimento del danno non
patrimoniale, mediante la riserva di legge, originariamente esplicata
dal solo art. 185 c.p. (ma cfr., anche l’art. 89 c.p.c.), ritiene
il Collegio che, venendo in considerazione valori personali di rilievo
costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale
che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge
correlata all’art. 185 c.p.
Una lettura della norma orientata alla luce del diritto vivente impone
di ritenere inoperante il detto limiti, se la lesione ha riguardato
valori della persona costituzionalmente garantiti.
Occorre considerare, infatti, che, nel caso in cui la lesione abbia
inciso su uno di questi valori, la ripartizione mediante indennizzo
(ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la misura
minima di tutela non assoggettabile a specifici limiti, a meno di no
risolversi in rifiuto di tutela nei casi esclusi (v. Corte cost. n.
184 del 1986, che si avvale, tuttavia, dell’argomento per ampliare
l’ambito della tutela ex art. 2043 al danno non patrimoniale da
lesioni dell’integrità biopsichica; ma l’argomento
si presta ad essere utilizzato anche per dare un’interpretazione
conforme a Costituzione dell’art. 2059).
D’altra parte, il rinvio ai casi in cui la legge consente la ripartizione
del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata
in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale,
atteso che il riconoscimento in essa di diritti inviolabili, inerenti
alla persona e non aventi natura economica, implicitamente, ma necessariamente,
ne esige la tutela ed in tal modo configura un caso determinato dalla
legge (al massimo livello) di ripartizione del danno non patrimoniale,
venendo ora ad esaminare la questione dell’ammissione a risarcimento
del danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consiste nella
definitiva perdita del rapporto parentale (con tale espressione sinteticamente
lo designa una ormai cospicua giurisprudenza di merito, inserendolo
nell’ambito del c.d. danno esistenziale), osserva il Collegio che
colui il quale chiede iure proprio il risarcimento del danno subito
in conseguenza dell’uccisione di un congiunto lamenta l’incisione
di un interessegiuridico diverso sia dal bene salute (del quale è
titolare e la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità
biopsichica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico),
saia dall’interesse all’integrità morale, la cui tutela,
agevolmente ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata
un’ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento
del danno morale soggettivo.
L’interesse fato valere nel caso di danno da uccisione di congiunto
è quello all’intangibilità della sfera degli affetti
e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia,
all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle
attività realizzatrici della persona umana, nell’ambito
di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la
cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Si tratta di un interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente
natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento
ai sensi dell’art. 2043, nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali,
ma da un risarcimento (o meglio: ad una ripartizione), ai sensi dell’art.
2059, senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185
c.p.,in ragione della natura del valore inciso e vertendosi in tema
di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
Il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente nella
perdita del rapporto parentale, si colloca, dunque, nell’area dell’art.
2059, in raccordo con le suindicate norme della Costituzione.
Il suo risarcimento postula tuttavia la verifica della sussistenza degli
elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale
definito dall’art. 2043.
La disposizione dell’art. 2059 non delinea una distinta figura
di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto
della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura
dell’illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge,
anche la ripartizione di danni non patrimoniali (eventualmente in aggiunta
a quelli patrimoniali, nel caso di congiunta lesione di interessi di
natura economica e non economica).
Per quanto concerne il nesso di causalità, va rilevato che, nel
caso in cui la perdita del rapporto parentale sia determinata dall’uccisione
di un congiunto, il medesimo fatto (uccisione di una persona) lede in
pari tempo situazioni giuridiche di soggetti diversi, legati da un vincolo
parentale.
L’evento naturale morte non causa soltanto l’estinzione della
vita della vittima primaria (che subisce il massimo sacrificio del relativo
personalissimo) ma causa, nel contempo, l’estinzione del rapporto
parentale con i coniugi della vittima, che, a loro volta, subiscono
la lesione dell’interesse all’intangibilità della sfera
degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota
la vita familiare.
Si ripropone, in questo caso, il fenomeno della propagazione intersoggettiva
delle conseguenze di un medesimo fatto illecito.
Figura nota, della quale la giurisprudenza, in tema di danni non patrimoniali,
ha fatto governo in varie ipotesi, ammettendo a risarcimento: il danno
morale soggettivo da morte di congiunto (Cass. 15 ottobre 1971, 11396);
il danno morale soggettivo cagionato da lesione non mortale sofferta
da un congiunto, come statuito, innovando il precedente orientamento
restrittivo (di cui sono espressione le sentenze suindicate), dalla
più recente giurisprudenza di questa Suprema Corte (Cass. 23
aprile 1998, n. 4186; 19 maggio 1999, n. 4852; 1 dicembre 1999, n. 13358;
2 febbraio 2001, n. 1516; S.U. 1 luglio 2002, n. 9556); il danno consistente
nell’impossibilità di intrattenere rapporti sessuali a causa
delle lesioni subite dal coniuge (Casss. 11 novembre 1986, n. 6607);
il danno subito dalla moglie e dai figli di un infortunato, rimasto
in coma profondo, per la lesione dei diritti di cui siano portatori,
ai sensi degli artt. 143 e 147 c.c. (Cass. 17 settembre 1996, n. 8305).
Ma ricadono nel paradigma, sia pur in materia di danni patrimoniali,
anche l’ipotesi della lesione del diritto di credito ad opera di
un terzo (secondo quanto affermato nel caso Meroni dalle S.U. con la
nota sentenza n. 174 del 26 gennaio 1971) e del danno patrimoniale subito
dai coniugi della vittima (ai quali viene equiparato il convivente more
uxorio: Cass. 28 marzo 1994, n. 2988) per la perdita delle contribuzioni
che da quella ricevevano ed avrebbero presumibilmente ancora ricevuto
in futuro, sempre pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza civile
(Casss. 10 dicembre 1969, n. 3929; 23 maggio 1975, n. 2063; 25 giugno
1981, n. 4137; 3 novembre 1995, n. 11453; 3 febbraio 1998, n. 1085;
ma v. anche Corte Cost. 27 ottobre 1994, n. 372).
In questi casi si suole parlare di danno riflesso o di rimbalzo, ma
la definizione non coglie nel segno, poiché dovendosi aver riguardo
alla lesione della posizione giuridica protetta, nel caso di evento
plurioffensivo la lesione è contestuale ed immediata per tutti
i soggetti che sono titolari dei vari interessi incisi (Cass. 3 febbraio
2001, n. 1561; S.U. 1 luglio 2002, n. 9556).
Ciò posto, il problema della causalità va affrontato e
risolto negli stessi termini in cui questa Suprema Corte lo ha affrontato
e risolto in relazione alle menzionate ipotesi di propagazione intersoggettiva
delle conseguenze di uno stesso fato illecito.
Al fine di individuare il responsabile dell’evento lesivo (incidente
sulle posizioni giuridicamente protette facenti capo alla vittima primaria
ed a quelle che si suole definire come vittime secondarie) dovrà
essere accertato il nesso di causalità materiale intercorrente
tra la condotta dell’uccisore e la morte della vittima primaria
alla stregua delle regole dettate dagli artt. 41 e 42 c.p., secondo
i criteri del c.d. causalità di fatto o naturale, impostati sul
principio della condizione sine qua non o della equivalenza, con il
correttivo del criterio della causalità efficiente (v., per tutte
Cass. 19 settembre 1996, n. 8348 e 27 maggio 1995, n. 5923, che esprimono
un orientamento consolidato).
Una volta risolto il problema dell’imputazione dell’evento
(problema che è proprio della responsabilità extracontrattuale,
poiché in quella contrattuale il soggetto responsabile è
di norma il contraente inadempiente: Cass. 15 ottobre 1999, n. 11629),
dovrà procedersi alla ricerca del collegamento giuridico tra
il fato (uccisione) e le sue conseguenze dannose, selezionando quelle
risarcibili, rispetto a quelle non risarcibili, in base ai criteri della
causalità giuridica, alla stregua di quanto prevede l’art.
1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056, comma 1, c.c.), che limita
il risarcimento ai soli danni che siano conseguenza immediata e diretta
dell’illecito, ma che viene inteso, secondo costante giurisprudenza
(Cass. 20 gennaio 1962, n. 89; 15 febbraio 1971, n. 373; 2 giugno 1992,
n. 6676; 16 febbraio 1993, n. 1907; 2 marzo 2000, n. 2356; 9 maggio
2000, n. 5913), nel senso che la risarcibilità deve essere estesa
anche ai danni mediati e indiretti, purchè costituiscano effetti
normali del fatto illecito, secondo il criterio della c.d. regolarità
causale (sul punto v., da ultimo, Cass. S.U. 1 luglio 2002, n. 9556,
in tema di danno morale soggettivo sofferto dai congiunti della vittima
di lesioni non mortali, che conferma le argomentazioni di Cass. 23 aprile
1998, n. 4186).
Circa l’elemento soggettivo, non è esatto ritenere che,
essendo necessaria la prevedibilità dell’evento al fine
di accertare la sussistenza della colpa, il soggetto che ha posto in
essere la condotta che ha causato la morte della vittima primaria non
dovrebbe rispondere del danno subito dai congiunti per difetto di prevedibilità
degli eventi ulteriori, tra i quali rientra la privazione, in danno
dei superstiti, del rapporto coniugale e parentale, e, quindi, per mancanza
di colpa.
è agevole opporre che la prevedibilità dell’evento
dannoso deve essere valutata in astratto e non in concreto; che l’evento
dannoso è costituito, in tesi, dalla lesione dell’interesse
all’intangibilità delle relazioni familiari; che tale lesione
deve ritenersi prevedibile, rientrando nella normalità che la
vittima sia inserita in un nucleo familiare, come coniuge, genitore,
figlio o fratello.
Per quanto concerne, in fine, la prova del danno, osserva il Collegio
che il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto non coincide
con la lesione dell’interesse protetto.
Esso consiste nella privazione di un valore non economico ma personale,
costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto,
dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali,
secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono
nell’ambito del nucleo familiare.
Perdita, privazione e preclusione che costituiscono conseguenza della
lesione dell’interesse protetto.
Volendo far riferimento alla nota distinzione tra danno- evento e danno-
conseguenza (introdotta da Corte Cost. 14 luglio 1986, n. 184, che ha
collocato nella prima figura il danno biologico, ma abbandonata dalla
successiva Corte Cost. 27 ottobre 1994, n. 372), si tratta di danno-conseguenza.
Non vale pertanto l’assunto secondo cui il danno sarebbe in re
ipsa, nel senso che sarebbe coincidente con la lesione dell’interesse.
Deve affermarsi, invece, che dalla lesione dell’interesse scaturiscono,
o meglio possono scaturire, le suindicate conseguenza, che, in relazione
alle varie fattispecie, potranno avere diversa ampiezza e consistenza,
in termini di intensità e protrazione nel tempo.
Il danno in questione deve, dunque, essere allegato e provato.
Siccome, tuttavia, si tratta di pregiudizio che si proietta nel futuro
(diversamente dal danno morale soggettivo contingente), dovendosi avere
riguardo al periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente esplicato
il godimento del congiunto che l’illecito ha invece reso impossibile,
sarò consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni,
sulla base degli elementi obbiettivi, che è onere del danneggiato
fornire.
La sua liquidazione, vertendosi in tema di lesione di valori inerenti
alla persona, in quanto tali privi di contenuto economico, non potrà
che avvenire in base a valutazione equitativa (artt. 1226 e 2056 c.c.),
tenuto conto dell’intensità del vincolo familiare, della
situazione di convivenza, e di ogni ulteriore circostanza, quali la
consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini
di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti.
Ed è appena il caso di notare che il danno non patrimoniale da
perdita del rapporto parentale, in quanto ontologicamente diverso dal
danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto
a favore dei congiunti unitamente a quest’ultimo, senza che possa
ravvisarsi una duplicazione di risarcimento.
Ma va altresì precisato che, costituendo nel contempo funzione
e limite del risarcimento del danno alla persona, unitariamente considerata,
la riparazione del pregiudizio effettivamente subito, il giudice di
merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale soggettivo
e del danno da perdita del rapporto parentale, dovrà considerare,
nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della
sofferenza contingente che gli va riconosciuta, poiché, diversamente,
sarebbe concreto il rischio di duplicazione del risarcimento.
La sentenza impugnata, la quale ha affermato che non può essere
riconosciuto in favore del coniuge e dei congiunti della vittima il
danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale non avendo
alcuna autonomia rispetto al danno biologico e al danno morale(cfr.,
pag. 17 sentenza) va, dunque casata sul punto e, riepilogando tutto
quanto premesso, il giudice del rinvio dovrà adeguarsi ai seguenti
principi: nel vigente assetto ordinamentale (nel quale assume posizione
preminente la Costituzione, che all’art. 2, riconosce e garantisce
i diritti inviolabili dell’uomo) il danno non patrimoniale, di
cui all’art. 2059 c.c., non può più essere identificato
(secondo la tradizionale, restrittiva lettura dell’art. 2059 stesso,
in relazione all’art. 185 c.p.) soltanto con il danno morale soggettivo,
costituito dalla sofferenze contingente e dal turbamento dell’animo
transeunte, determinati dal fatto illecito integrante reato.
Esso deve essere piuttosto inteso come categoria ampia, comprensiva
di ogni ipotesi in cui si verifichi una ingiusta lesione di un valore
inerente la persona, costituzionalmente garantito, dalla quale conseguano
pregiudizi non suscettivi di valutazione economica, senza soggezione
al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185
c.p.; l’interesse al risarcimento del danno non patrimoniale da
uccisione del congiunto, per la definitiva perdita del rapporto parentale,
si completa nell’interesse dell’intangibilità della
sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito
della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione
delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito
della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui
tutela è ricollegabili agli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Esso si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’art.
2059 c.c., in raccordo con le su indicate norme della Costituzione e
si distingue sia dall’interesse al bene salute (protetto dall’art.
32 Cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico),
sia dall’interesse all’integrità morale (protetto dall’art
2 Cost e tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo);
il risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione di congiunto
postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali sia articola
l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043
c.c. e, dunque, del esso di causalità tra azione ed evento (sotto
il profilo della propagazione intersoggettiva delle conseguenze del
medesimo fatto illecito), del collegamento giuridico tra fatto e conseguenze
dannose) laddove la risarcibilità va estesa ai danni mediati
e indiretti che costituiscano effetti normali del fatto illecito secondo
il criterio della c.d. regolarità causale), dell’elemento
soggettivo (laddove la prevedibilità dell’evento dannoso
è insita nella normalità che la vittima sia inserita in
un nucleo familiare); il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto,
quale tipico danno- conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse
(non è in re ipsa) e come tale deve essere allegato e provato
da chi chiede il relativo risarcimento.
Tuttavia, trattandosi di pregiudizio che si proietta nel futuro, è
consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni, sulla
base degli elementi obbiettivi che è onere del danneggiato fornire.
La sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga
conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione
di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza
più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita,
l’età della vittima e dei singoli superstiti.
Nell’uniformarsi a questi principi il giudice del rinvio procederà
ad una nuova liquidazione del danno non patrimoniale, che tenga conto
di quanto già liquidato a titolo di danno morale.
Il terzo motivo del ricorso incidentale, che censura la sentenza nella
parte in cui non riconosce al nipote A. P. il risarcimento da danno
morale, ritenendo non provato che la vittima costituisse un valido e
concreto sostegno nei confronti del nipote, va dichiarato inammissibile,
posto che, non essendo il minore in questione destinatario del ricorso
principale (lo sono solo la G. ed il P. L.), il suo autonomo ricorso
è da considerarsi tardivo (la sentenza risulta depositata il
19 gennaio 1999 ed il ricorso incidentale è stato notificato
in date 30 e 31 marzo 2000).
L’accoglimento dei motivi primo e secondo del ricorso incidentale
comporta l’assorbimento dei motivi secondo, terzo, quarto e quinto
del ricorso principale (cfr. supra al punto I.2).
In conclusione, va respinto il primo motivo del ricorso principale,
vanno accolti i motivi primo e secondo del ricorso incidentale, vanno
dichiarati assorbiti il secondo, il terzo il quarto ed il quinto motivo
del ricorso principale, va dichiarato inammissibile il terzo motivo
del ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va casata e la causa rinviata ad altra sezione
della Corte d’Appello di Trieste, che si uniformerà ai principi
di diritto sopra enunciati.
La complessità e la novità delle questioni trattate consiglia
la totale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.
PQM
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il primo motivo del ricorso principale,
accoglie i motivi primo e secondo del ricorso incidentale, dichiara
assorbiti i motivi secondo, terzo , quarto e quinto del ricorso principale,
dichiara inammissibile il terzo motivo del ricorso incidentale.
Cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della
Corte d’Appello di Trieste.
Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Roma, 5 giugno 2003.
Depositata in Cancelleria il 19 agosto 2003.
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