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Giurisprudenza di merito - Guida in stato di ebbrezza – Accertamento – Alcooltest – Obbligo di sottoporsi – Limiti – Fattispecie in tema di rifiuto a sottoporsi all’alcooltest

Tribunale Penale di Milano Sezione I, 8 febbraio 2006

In tema di guida in stato di ebbrezza, la situazione che giustifica la richiesta dell’esame alcolimetrico deve emergere in base a circostanze obiettive le quali facciano ritenere agli agenti di polizia che un determinato soggetto stia guidando sotto l’influsso di bevande alcoliche. L’art. 186, comma 4, c.s. non impone un generalizzato obbligo, per tut­ti i conducenti, a prestarsi a verifiche immotivate e discrezionali, ma richiede che il pubblico ufficiale verifichi in concreto la verosimile esistenza di una condizione di rischio. (Nella fattispecie l’imputato si era rifiutato reiteratamente di sottoporsi all’esa­me alcolimetrico pur presentando un’ alitosi alcoli­ca tale da rendere legittima la richiesta del predetto esame).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECI­SIONE. - Con decreto del 4 settembre 2003, il P.M. presso il Tribunale ordinario di Milano disponeva la citazione a giudizio dell’imputato come sopra nominato per i reati di cui al capo di incolpazione riportato in epigrafe.
All’esito dell’ istruttoria dibattimentale e della discus­sione, le parti rassegnavano le proprie conclusioni come riportate in atti ed il Giudice enunciava il dispositivo.
La sera del 13 novembre 2003, ha riferito il teste B. - operante della G.d.F. - lui ed i suoi colleghi stavano svolgendo servizio in zona viale Brianza di Milano, quando la loro attenzione veniva attratta da un furgone Fiat Ducato, il quale, proveniente da piazzale Loreto, procedeva ad alta velocità. D’improvviso il mezzo, dopo aver creato una pericolosa situazione per la circolazione, bloccava la propria marcia e, con bru­sca manovra, montava sopra un marciapiede laterale. A quel punto gli operanti, attratti dalla scena, si avvi­cinavano al mezzo. Il conducente - dice il teste - scendeva dal veicolo e cercando di nascondersi girava at­torno al mezzo. Soggiunge il B. che il soggetto, identificato per l’odierno imputato, appariva in evi­dente stato di ebbrezza; condizione manifestata da ali­tosi, minacce, bestemmie e frasi sconnesse rivolte verso i militari. A quel punto gli operanti rappresen­tavano al M. la necessità di verificare il suo eventuale stato di ebbrezza; tuttavia, non disponendo di attrez­zatura, gli stessi facevano presente che sarebbe stato necessario recarsi presso gli uffici della Polizia Mu­nicipale in corso San Gottardo.
L’imputato, sostenendo di non essere affatto ebbro, accettava spontaneamente l’offerta e saliva con i mi­litari sulla loro automobile di servizio.
Tuttavia, giunti presso il comando dei Vigili, l’im­putato, su consiglio del suo difensore sopraggiunto nel frattanto in loco, rifiutava di sottoporsi al test alcoli­metrico. Cosicché il medesimo veniva denunciato a piede libero per i reati per i quali oggi si procede.
Se questi sono i fatti in rapida sintesi, è ora neces­sario esaminare separatamente ciascuna delle imputa­zioni onde acclararne la materiale sussistenza.
Quanto al capo A, appare chiaro come la mancata esecuzione del test alcolimetrico obbliga il tribunale a valutare l’eventuale stato di ebbrezza sulla base del giudizio soggettivo dell’operante intervenuto sul po­sto. Ora, se pure è noto come non vi sia alcun ostacolo di principio a tale modo di procedere (Cass., S.D., 5 febbraio 1996, n. 1299), valuta il Giudice che nel caso di specie non si possa ritenere pienamente raggiunta la prova della condizione di ubriachezza dell’imputato.
Il B. parla di un M. che farnetica frasi scon­nesse, con fare aggressivo e minaccioso; atteggia­mento attribuito dall’operante alla condizione di eb­brezza del soggetto. Orbene, il M. non ha affatto negato di avere verbalmente aggredito gli operanti, ri­volgendogli anche frasi estremamente offensive. Tuttavia egli ha spiegato che il suo atteggiamento fu do­vuto ad una situazione di esagitazione determinata da una lite che poco tempo prima aveva avuto con dei marocchini, nonché a sue precedenti ruggini con le Forze dell’ordine. Ovviamente il tribunale non è te­nuto a dare credito alle parole dell’imputato; d’al­tronde qui non si tratta di accertare fatti obiettivi, ma di valutare l’attendibilità di giudizi soggettivi e quindi la questione, è molto più delicata. Se l’imputato for­nisce una ragionevole spiegazione del suo contegno, alternativa a quella supposta dall’operante, non si può non tenerne conto.
Soprattutto sono i frangenti successivi che lasciano qualche dubbio. Come visto, B. parla di un soggetto in chiarissimo stato di ebbrezza tanto da mani­festare comportamenti fuori di senno; ora è piuttosto singolare che una persona in questo stato, sostenendo di non esser affatto ubriaco, acconsenta a lasciare il suo mezzo per recarsi dall’altra parte della città a di­mostrare la sua innocenza. Né può essere utilizzato come argomento a contrario il fatto che poi il M. ri­fiutò di eseguire il test, giacché - come spontanea­mente affermato dallo stesso imputato e confermato indirettamente dal teste S. - fu il difensore dell’imputato, presente al comando dei vigili, a consigliare a M. di non soffiare nell’etilometro (cfr. trasc. imp., 24 ottobre 2005, pag. 9 «si, si infatti ho chiamato il mio avvocato e mi ha detto - ti sto raggiungendo ­, dopodiché quando dovevo soffiare ho chiesto un con­siglio legale - soffio o no? perché intanto non ho niente da nascondere - e lui mi ha detto - non soffiare -, ­va bene, non soffio -»). Non solo, ma il fatto stesso che l’imputato abbia avuto la lucidità per contattare il suo avvocato nel mentre si compiva il tragitto verso corso San Gottardo pare ulteriore dimostrazione del fatto che il medesimo non fosse così «evidentemente» ebbro.
Ulteriormente, una volta giunto dalla Polizia Municipale, il M. viene in contatto con l’agente S.. Ebbene, S. dice che l’imputato si presenta in condizioni normali: il teste spiega che cosa avrebbe do­vuto fare l’imputato e quest’ultimo, consultatosi con il suo legale, decide di non soffiare nell’etilometro. Quello che importa è che l’impressione dello S. è di­versa da quella di B.. Dice il teste che, a giudicare dall’alito, il M. poteva avere bevuto qualcosa; ma in ogni modo il soggetto parlava normalmente, non dava segni di escandescenza, non barcollava né palesava sin­tomi di evidente ebbrezza. Ora, anche se tra l’intervento del B. e quello dello S. sarà intercorso un certo periodo di tempo, non sono quei dieci, venti o trenta minuti sufficienti a fare smaltire quella che il primo testimone ha descritto come una sonora sbornia. In conclusione, la versione di Buccheri non è sembrata confermata da circostanze obiettive di natura tale da po­tere fare affermare, con assoluta certezza, che il M. re­casse in corpo un quantitativo di alcol superiore al limite legale consentito. Come giustamente ha detto S., questo lo si sarebbe potuto verificare con sicu­rezza solo sottoponendo il M. a quella prova alcolime­trica che l’imputato si è rifiutato di eseguire (d’altronde non è un caso se il rifiuto integra esso stesso condotta criminosa).
Dunque, per il capo di cui si discute, si impone una sentenza assolutoria perché è sufficiente ed incompleta la prova della sussistenza del fatto contestato.
Quanto al capo B, la questione è del tutto diversa e la violazione appare integrata in modo indiscutibile. Preliminarmente va precisato che il capo di imputa­zione è palesemente errato nell’indicazione nomina­tiva del reato violato. Infatti, la norma che unisce il comportamento descritto non è l’articolo 187 comma 7, ma l’articolo 186, comma 7 c.d.s. D’altronde - seb­bene tale precisazione manchi nel dispositivo - si tratta di mero errore materiale senza alcun effetto concreto.
Ciò detto, lo S. ha riferito che, una volta arrivato l’imputato presso la sede dei vigili, egli spiegò che il tutto consisteva nel soffiare in un tubo. Il M., alla presenza del suo avvocato, declinò l’offerta. A quel punto lo S. chiarì espressamente che un even­tuale rifiuto avrebbe comportato l’applicazione di una sanzione e ciò nonostante il M. non retrocesse dalla sua determinazione. La cosa - prosegue S. ­finì lì e tutti, incluso l’imputato, rimasero ancora un po’ al comando per completare la redazione dei vari atti e adempimenti burocratici.
Come si vede il M. ha reiteratamente rifiutato di sottoporsi all’accertamento imposto dalla legge, questo pur dopo essere stato espressamente avvertito di quelle che sarebbero state le conseguenze.
Peraltro le circostanze del caso rendevano più che giustificata la richiesta degli operanti. Il M. - come ri­ferito da B. e confermato da S. - pre­sentava alitosi alcolica e tale circostanza rendeva più che legittima la richiesta - quantomeno - di effettuare una verifica obiettiva. Peraltro, va anche ricordato che, in un primo tempo, il M. decide spontaneamente di sot­toporsi a prova con etilometro, tanto da salire volon­tariamente sulla macchina dei militari della G.d.F. Solo una volta giunto agli uffici della Polizia Municipale ed avere parlato con il suo difensore, l’imputato cambia idea e si oppone all’alcol test.
L’ultima tematica rimane quella relativa all’asserita incostituzionalità della norma incriminatrice della cui applicazione si discute. A parere del difensore la vio­lazione del dettato costituzionale si porrebbe in ra­gione del fatto che la norma attribuisce alla polizia, sotto minaccia penale, il potere di imporre al quisque de populo la sottoposizione ad accertamenti in qualche modo limitativi della sua libertà.
Ad opinione del tribunale la problematica potrebbe porsi, in via meramente astratta, sotto due profili: quello della libertà personale garantita dall’articolo 13 Cost. e quello del diritto di difesa garantito dall’ articolo 24 Cost..
Ora, quanto al primo aspetto la questione è palese­mente infondata. Come insegna Corte cost. n. 238/ 1996, dubbi di legittimità sorgono quando si tratta di accertamenti coattivi da eseguire sulla persona (es. prelievo forzoso di sangue). Nel caso di specie nessuna delle due condizioni è verificata: l’accertamento non è coattivo, in quanto il soggetto può opporre un rifiuto e non è intrusivo della sfera di integrità dell’individuo, in quanto si esegue non violando i confini del corpo, ma soffiando in un tubo.   
Quanto al successivo aspetto, la conclusione non può che essere medesima. L’obiezione che potrebbe muoversi all’articolo 186 comma 7 c.d.s. è che esso vi­ola il principio per cui nemo contra se detegere tenetur (e, quindi, mediatamente l’articolo 24 Cost.) nei limiti in cui si prospetta una sanzione penale per chi non pre­sti una collaborazione dalla quale potrebbero emergere circostanze in grado di dimostrare una propria respon­sabilità penale. Orbene, la regola per cui nessuno può essere tenuto a comportamenti auto-incriminanti non è espressione di un principio assoluto e generalmente prevalente, ma deve entrare in un giudizio di bi1ancia­mento con altri valori di rango parimenti costituzionale (ad es. Corte cost., ord. n. 48512002 dà un esempio di questa operazione, contemperando diritto al silenzio e principio costituzionale del contraddittorio).
Nel caso di specie la imposizione di un obbligo di cooperazione, eventualmente anche contra se, si giu­stifica in ragione della prioritaria esigenza di proteg­gere l’incolumità fisica dei terzi, che partecipano all’attività di circolazione stradale, al cospetto di un pericolo immediato e contingente, rappresentato dalla presenza di un conducente in stato di ebbrezza.
Peraltro la situazione che giustifica la richiesta dell’esame alcolimetrico deve emergere in base a circo­stanze obiettive, le quali facciano ritenere agli agenti di polizia che un determinato soggetto stia guidando sotto l’influsso di bevande alcoliche (art. 186, comma 4 c.d. s.). In altre parole la disposizione di cui si parla non impone un generalizzato obbligo, per tutti i conducenti, a pre­starsi a verifiche immotivate e discrezionali, ma richiede che il pubblico ufficiale verifichi in concreto la verosi­mile esistenza di una condizione di rischio.
Alla luce delle predette considerazioni, il reato con­testato è perfettamente legittimo e palesemente integrato dalla condotta del M.
Il M. merita la concessione delle attenuanti generi­che; ciò lo si può dire in ragione del contegno proces­suale tenuto dall’ imputato, improntato all’ idea di un pro­ficuo contraddittorio con la Corte.
Il fatto in sè non presenta una gravità tale da giusti­ficare l’irrogazione di una sanzione di particolare entità. Né, ai fini della intensità dell’elemento soggettivo, il tri­bunale può trascurare di considerare il ruolo svolto dal difensore del M. in quella fatidica serata del 13 novem­bre 2003. Senza, con ciò, volere assolutamente giudicare o interferire con le strategie difensive, non si può fare a meno di prendere in considerazione che il M. fu quan­tomeno coadiuvato, nella sua idea di non prestare il con­senso al test, dai suggerimenti del suo legale. Questo particolare naturalmente non esclude la responsabilità dell’imputato, al quale venne esplicitamente spiegata quale sarebbe stata la conseguenza del suo rifiuto; tut­tavia si tratta di circostanza utile a valutare l’atteggia­mento della volontà del predetto al momento del fatto.

Tanto premesso, ed alla luce dei criteri di cui all’ar­ticolo 133 C.p., sembra congrua una pena di giorni quin­dici di arresto ed euro 450,00 di ammenda. L’applica­zione dello sconto per le generiche, porta ad una pena finale di giorni dieci di arresto ed euro 300,00 di am­menda.
Tenuto conto della peculiarità del reato per il quale si procede, il tribunale giudica opportuno convertire la pena detentiva in pena pecuniara così come consentito dalla legge n. 689/1981. Si ritiene infatti che una san­zione in denaro, immediatamente efficace (e peraltro di identica natura rispetto a quella già irrogata con il de­creto penale inopinatamente opposto dal M.), possa svolgere una maggiore efficacia dissuasiva, i reati di «di­sobbedienza» come quello in oggetto, rispetto a misure restrittive della libertà che presentano sempre effetti col­laterali di segno negativo.
Alla condanna segue pure il pagamento delle spese processuali.
Il M. non può beneficiare della sospensione della pena. Al di là della specifica condizione soggettiva del predetto - il M. pare avere una precedente condanna patteggiata -la tipologia della pena prescelta deve an­dare di pari passo con la effettiva esecuzione della stessa. Solo in questo si bilancia il trattamento di mag­giore favore derivante da una sanzione di tipo pecu­niario, garantendo una reale efficacia specialpreven­tiva della stessa. (Omissis). 

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Martedì, 19 Giugno 2007
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