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Corte di Cassazione 05/10/2006

da Altalex - Falsa testimonianza del prossimo congiunto: facoltà di astensione e punibilità

Cassazione, sez. VI penale, sentenza 20 giugno 2006 n° 27614

La sentenza in commento approfondisce consapevolmente un contrasto giurisprudenziale intorno alla testimonianza del prossimo congiunto dell’indagato (elencazione tassativa per la quale si rimanda all’articolo 307/4 c.p.), ribadendo al punibilità di un prossimo congiunto che, avvertito della facoltà di astensione garantito dall’art 199 c.p.p., testimoni il falso, contrapponendosi a quella linea interpretativa che recentemente sembrava avere prevalso secondo la quale "l’obbligo legale di testimoniare o anche la libera scelta di farlo nell’ipotesi in cui non si eserciti, ove prevista, la facoltà di astenersi non incidono sulla operatività della esimente di cui al primo comma dell’art. 384 C.P. che ha una sua autonomia e trova la sua giustificazione con l’istituto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e con l’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà familiare" (per tutte, Cassazione penale , sez. VI, 04 ottobre 2001, n. 44761, Presidente Fulgenti).

Secondo tale interpretazione "la necessità di cui all’art. 384/1 C.P. non si riferisce all’obbligo di rendere la testimonianza, bensì all’inevitabilità del nocumento che, senza di essa, si sarebbe verificato. Il pericolo del detto nocumento infatti, si concretizza solo allorché il soggetto sia obbligato comunque a deporre (è il caso dell’imputata) o rinunci alla facoltà concessagli di astenersi dal deporre; non sussistono in questi casi, in base al diritto positivo, ragioni per rifiutare l’applicabilità della scriminante in esame. (…) [N]on può fondatamente sostenersi che la norma di cui al primo comma dell’art. 384 C.P. ha il suo fulcro nel dovere di testimonianza, per inferirne che non è applicabile a chi abbia deposto il falso dopo essere stato avvertito, a norma dell’art. 199 C.P.P., della facoltà di astenersi dal rendere la testimonianza. Tale tesi non ha alcun aggancio nel diritto positivo, riduce irragionevolmente il campo di operatività della norma, non considera soprattutto che la esimente in parola non è limitata alla falsa testimonianza, ma si estende ad altri reati, quali la frode processuale o il favoreggiamento personale, nei quali - evidentemente - la necessità non può essere collegata in alcun modo alla violazione di un dovere." (sentenza 44761 cit.).

Peraltro, così interpretata la norma in parola – che invero ha suscitato ampia discussione intorno alla sua natura giuridica, e potendosi convenire con chi afferma che si tratti non di una ipotesi speciale dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., ma di una causa di esclusione della colpevolezza (essendo integrato il fatto tipico nella sua oggettività ma dovendosi escludere l’esigibiltà del comportamento conforme alla norma per l’istinto di conservazione o nella tutela dei sentimenti familiari) – pareva dare la "licenza di mentire" ai prossimi congiunti, che potevano costituire valido elemento di prova a favore del congiunto salvo poi andare esenti da pena nel caso in cui si fosse dimostrata la falsità della loro deposizione.

Il paradosso viene ora evitato con la correzione di rotta da parte della VI sezione: il futuro saprà dirci se le ragioni ben evidenziate dalla sentenza in commento abbiano posto fine alla diatriba.

(Altalex, 2 ottobre 2006. Nota di Nicola Canestrini)


 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE
VI PENALE
Sentenza 20 giugno 2006 - 2 agosto 2006, n. 27614

Presidente Sansone - Consigliere Romano

Repubblica Italiana
In Nome del Popolo Italiano

La Corte Suprema di Cassazione
VI sezione penale

(…)

Con sentenza 16 luglio 2004 la Corte di Appello di Trento, in parziale riforma della sentenza 5/12/2002 del tribunale della stessa città, (con la quale XXX L. era stata condannata per il reato di cui all’art. 372 c.p. ad anni 1 di reclusione- le era contestato di aver affermato il falso come testimone, in quanto aveva dichiarato, all’udienza 1/2/2001, dinanzi al Tribunale di Trento:

"di essere stata lei a telefonare alla sorella XXX P.L. il giorno 30/4/1999;

che la predetta telefonata aveva lo scopo di avvisare la sorella che il notaio YYY attendeva che (la stessa) e gli altri due fratelli si recassero da lui a sottoscrivere la cancellazione di due ipoteche già pagate in quanto lei intendeva vendere e l’acquirente senza la cancellazione non avrebbe acquistato;

che, nella mattinata del 30/4/1999, ella si era incontrata con il notaio YYY per trattare di queste questioni con il compratore e che al rientro dallo studio del notaio aveva chiamato la sorella (suddetta);

che ricordava il giorno esatto per averlo appreso dalla sua agenda del 1999",

concedeva all’imputata stessa la non menzione alla condanna.

Avverso detta sentenza la XXX ha proposto ricorso per Cassazione.

Denunzia erronea applicazione della legge penale.

Deduce: che erroneamente la Corte d’Appello di Trento non ha ritenuto sussistente l’esimente di cui all’art. 384 c.p., considerando la necessità di salvare un proprio congiunto dal nocumento che consegue ad una condanna, adeguatamente salvaguardata dalla facoltà di astensione dalla deposizione;

che il prevalente orientamento della recente giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile tale esimente anche quando il prossimo congiunto dell’imputato abbia operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare.

Osserva il Collegio che il ricorso è infondato.

Al riguardo correttamente la corte territoriale, si è espressa nel senso che "… l’interesse del testimone, il quale è compreso dalla deposizione testimoniale, ‘dalla necessità di salvare un prossimo congiunto dal nocumento’ che consegue ad una condanna, sia adeguatamente salvaguardato con la facoltà di astensione dalla deposizione (cfr. Cass. Sez. VI, 16/11/2000). Il testimone è, infatti, posto nella condizione di scegliere consapevolmente – in seguito all’avvertimento del giudice – se sottoporsi alla testimonianza con conseguente obbligo di dire la verità ovvero se esimersi dalla stessa; con tale scelta egli è in grado di sottrarsi ‘all’inevitabilità del nocumento’ che potrebbe derivare al prossimo congiunto dalla verità della sua deposizione".

In conformità dell’avviso della corte territoriale, questo Collegio non condivide l’orientamento della sentenza della Sezione VI, 4/10/2001, che come si è detto, estende l’applicabilità dell’esimente anche nei confronti di coloro che abbiano operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare, ma ritiene di restare nel solco della prevalente giurisprudenza di legittimità per ragioni che, come di seguito sarà detto, appaiono inconfutabili.

La pronunzia dinanzi menzionata si fonda preminentemente sull’assunto che la causa di non punibilità di cui alla disposizione in parola "… presuppone una situazione di necessità, nettamente distinta da quella prevista in via generale dall’art. 54 c.p., poiché non richiede (come in quest’ultimo) che il pericolo non sia stato causato dall’agente, nella quale il nocumento alla libertà e all’onore è evitabile solo con la commissione di uno dei reati contro l’amministrazione della giustizia", ma non coglie che tale netta distinzione è, viceversa, smentita dal testo delle disposizioni.

Orbene questo Collegio ritiene che l’ipotesi in cui la situazione di necessità sia stata volontariamente causata dal soggetto agente, esplicitamente esclusa (art. 54 c.p.) nello stato di necessità, nel cui disposto è detto che il pericolo di un danno grave alla persona deve essere dall’agente "… non volontariamente causato", non può avvalersi di un trattamento meno favorevole rispetto all’esimente di cui all’art. 384 c.p., per incontrovertibili argomenti, attinti all’interpretazione letterale della norma.

Deve considerarsi: in primo luogo il significato dell’espressione "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore" che, cioè, indica chi è obbligato a fare cose contrarie alla sua volontà e, comunque, non spontanee;

che, quando ciò avviene, sussiste una situazione in cui certamente non versa il soggetto che ha scelto di non astenersi dal deporre, così determinando esso stesso la situazione di necessità;

in secondo luogo l’aggettivo "inevitabile", inevitabilità che non sembra più sussistere allorché l’agente avrebbe potuto evitare la situazione necessitante avvalendosi della facoltà di non rispondere e così scongiurando il nocumento derivante da una sua testimonianza veritiera;

in terzo luogo che l’ultima parte del comma 2 dell’art. 384 col dire "… la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto a rifornire informazioni ai fini dell’indagine o assunto come testimone (…) avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza …", procura un ulteriore argomento favorevole alla tesi propugnata, in quanto riguardo a costoro non dovrebbe escludersi la punibilità nel caso in cui il soggetto sia stato avvertito della facoltà di astenersi e vi abbia rinunciato.

Alla reiezione del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2006.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2006.


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Giovedì, 05 Ottobre 2006
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