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Articoli 31/01/2008

“La strada” di Cormac McCarthy


La terra era sterile, erosa, sventrata. Acquitrini disseminati di ossa di creature morte. Mucchi di rifiuti indistinti. Fattorie scalcinate in mezzo ai campi con le assi delle pareti schiodate. Tutto senza ombra né contorni precisi. La strada scendeva in una giungla di rampicanti avvizziti. Una palude ricoperta da uno strato di canne morte. All’orizzonte una foschia cupa che permeava terra e cielo. Nel tardo pomeriggio cominciò a piovere e proseguirono tenendosi il telo sopra la testa, con la neve bagnata che sibilava contro la plastica... … Già allora tutte le riserve di cibo erano esaurite, e la terra sconvolta dai massacri. In breve tempo il mondo sarebbe stato popolato da gente pronta a mangiarti i figli sotto gli occhi, e le città dominate da manipoli di predoni anneriti che scavavano gallerie in mezzo alle rovine e strisciavano fuori dalle macerie in un biancheggiare di occhi e denti, reggendo reti di nylon piene di scatolame bruciacchiato, come avventori negli spacci nell’inferno. Il soffice talco nero si spandeva a sbuffi per le strade come inchiostro di seppia sul fondo del mare, il freddo scendeva lento e faceva buio sempre più presto, e i disperati che frugavano alla luce delle torce sul fondo dei dirupi lasciavano nello strato di cenere ombre morbide che si richiudevano dietro di loro silenziose come occhi. Per le strade i pellegrini sprofondavano, cadevano e morivano e la terra avvolta nel suo lugubre velo continuava ad arrancare intorno al sole, ignota e smarrita come qualsiasi altro pianeta sconosciuto nella remota oscurità circostante…

Questo è ciò che si vedrebbe dalla strada dopo una guerra atomica. Non più traffico, smog, rumore, ma solo questo. Non ho mai amato i giudizi entusiastici e iperbolici sui romanzi della letteratura contemporanea, che continuo a non trovare eccelsa e veramente universale. Ma dopo avere letto “La strada”, il recentissimo romanzo di Cormac McCarthy vincitore dell’ultimo Pulitzer, sono arrivato a due conclusioni, strettamente personali ovviamente. Primo: un autore in grado di concepire e scrivere una storia del genere non può non essere il più grande scrittore vivente. Secondo: non ho mai letto nulla di così sconvolgente. La trama è scarna, essenziale, e si snoda tutta attorno a una quotidianità brutale e animalesca in cui si dibattono un uomo e un bambino, un padre e un figlio, che alcuni anni dopo l’olocausto nucleare (quanti? Nove, dieci, non si sa perché non esistono più neanche le scansioni del tempo) vagano in un mondo desertificato e senza vita, dove non abitano più animali, insetti, e nemmeno batteri, tanto che non v’è traccia di processi di putrefazione, ma tutto è rimasto cenere, terra bruciata, foschia fatta di fuliggine, statue e reperti carbonizzati,
come in una assurda istantanea. I due camminano su strade infinite e senza tracce di esistenza trascinando tutto quello che a loro è rimasto e costituisce il capitale per sopravvivere, un carrello del supermercato, un telo di plastica per ripararsi dalle intemperie, un accendino, scatolette rimediate ovunque sia possibile (l’unico cibo che ancora di trova), una pistola per difendersi dai predoni che vogliono sopravvivere ad ogni costo, due coperte. Tutto qui, nient’altro. I due vanno a piedi alternando marce forzate a notti passate a difendersi da un freddo spesso glaciale, accendendo un fuoco di sterpi immersi nel buio cieco, dove anche allungare un braccio è già una proiezione verso l’ignoto. Non c’è più luce da nessuna parte, l’acqua dei torrenti e degli stagni è grigia, senza pesci, senza fauna né flora, senza alcun microrganismo. Il mondo ha già iniziato a fossilizzarsi. Vanno verso sud, verso la costa, con la indistinta speranza che movendosi in quella direzione forse ritroveranno un po’ di calore in più, in grado di risvegliare qualche barlume di vita. Nient’altro. Nessun progetto, nessun appiglio concreto a cui aggrapparsi. Ha un senso vivere in questa non-realtà? La risposta, elegiaca e fuori dal tempo, di McCarthy è: sì, ha un senso, fino a quanto esiste un sentimento assoluto e totale come l’amore che unisce questi due esseri, e che si rinnova di minuto in minuto, di risveglio in risveglio. Il senso della vita, di questa nuova vita schiacciata dal nulla circostante è proprio nel singolo attimo di amore che reitera sé stesso e continua, adesso, fino all’attimo successivo e poi a quello dopo, e non si sa fino a quando. Questo sentimento presente adesso è il presente, perché non c’è più nient’altro, ma è sufficiente per andare avanti. Ma dire sufficiente sarebbe riduttivo. È la spinta poderosa, disperata ma bestialmente vitale, che come al solito innerva la vita. Si torna allo stato di natura, all’esempio illuminante degli animali e delle loro cucciolate che combattono la loro battaglia quotidiana per il cibo e la sopravvivenza per la prole. Tante frasi di questo romanzo sono emblematiche. Ne ricordo solo una, che riassume questa poetica: “il bambino era l’unica cosa che lo separava dalla morte”. Come dicevo, sconvolgente. Perché McCarthy non è un autore di genere, a cui già in partenza ci rivolgiamo perché vogliamo provare sensazioni particolari, in questo caso sensazioni forti. Non è uno Stephen King che fa rabbrividire perché la sua missione e la sua cornice è questa. No, McCarthy ci rappresenta un mondo dove il raccapriccio e l’allucinazione sono la disarmante realtà, la conseguenza fisiologica di ciò che potrebbe avvenire dopo la catastrofe delle catastrofi, dopo “il finimondo”. La distruzione lascia spazio a un’epica della spiritualità. Qui non ci sono delitti, intrighi, psicopatici, serial killer. Qui c’è solo la spaventosa normalità in cui cadrebbe il mondo, come diretta conseguenza di ciò che è accaduto. Mi è capitato di parlare di questo libro e di sentirmi rispondere: “sì, ma si tratta di una storia irreale…”. Irreale? Occorre intendersi sulle parole e i concetti. Irreale è ciò che non potrà mai accadere, che sconfina nella fantasia e nel mito. Irreale può essere Edgar Allan Poe, con i suoi racconti del mistero (anche quelli capolavori assoluti e mai più eguagliati). Irreale può essere una storia dove il sole sorge a ovest e tramonta a est. Ma qui non c’è nulla di irreale. Nelle pagine di McCarthy c’è la nuda rappresentazione di quello che abbiamo rischiato negli ultimi sessant’anni, e che stiamo rischiando anche adesso, con le testate nucleari puntate sulle città europee e gli allarmi atomici fasulli che si sono ripetuti tante volte, dovuti a un errore dei sistemi computerizzati, e che solo per una incrollabile fortuna non hanno fatto partire i missili e scatenare le ritorsioni nucleari. Avere evitato l’apocalisse è stato spesso un miracolo, e speriamo che continui ad esserlo. Dopo, cosa resterebbe? McCarthy ce lo dice con una lucidità e una capacità di immedesimazione e di evocazioni impressionanti. “La strada” è un libro che turba profondamente, tanto spietato quanto commovente. Un libro più che da leggere, da affrontare, perché lascia una traccia profonda. E non è certo colpa di Dio se una cosa del genere accadesse (o accadrà). In fin dei conti Dio, nella sua infinita sapienza, di un essere stupido come l’uomo alla fine si può anche disinteressare.


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Bibliografia
 Cormac McCarthy, nato nel Rhode Island nel 1933, è cresciuto in Tennessee, dove ha frequentato l’Università, abbandonandola per ben due volte. Entrato nel ‘53 nell’Air Force, vi è rimasto per quattro anni. Attualmente vive a El Paso, in Texas, lontano dal clamore. McCarthy non concede interviste e non frequenta gli ambienti letterari e mondani: un uomo che non ha bisogno di amicizie mondane per essere scrittore. Tra le sue opere, tutte di grande sapienza artistica e letteraria, è giusto ricordare almeno, Il guardiano del frutteto, Il buio fuori, Meridiano di sangue, Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura. Cavalli selvaggi, ha conquistato il National Book Award.

Da il Centauro 117

© asaps.it

di Michele Leoni*

Giovedì, 31 Gennaio 2008
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