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Notizie brevi 23/05/2022

Emanuele Schifani, figlio dell’agente della scorta di Falcone: «Avevo 4 mesi quando la mafia uccise mio padre: da piccolo provai rabbia, mai odio»

Chi era Vito Schifani? Un lungo silenzio. Un sospiro. «Vito Schifani poteva essere tante cose. Poteva essere mio padre. Poteva essere un marito. Mentre l’unica cosa certa è che era un poliziotto ed è morto a Capaci il 23 maggio del 1992 alle 17.58». Emanuele Antonino Schifani aveva quattro mesi quando suo padre fu ammazzato da quella montagna di tritolo assieme al giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e altri due membri della scorta: Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Oggi sono passati 30 anni da quando la mafia dichiarò guerra allo Stato. Schifani ha 30 anni (e 4 mesi) ed è un capitano della Guardia di Finanza, che, assai orgoglioso, comanda una compagnia di 170 uomini alla Scuola ispettori e sovrintendenti dell’Aquila, dove si stanno formando 3.000 divise delle Fiamme gialle.

Capitano, ricorda la prima volta in cui ha scoperto che suo padre era stato ucciso dalla mafia?
«Non c’è mai stato un giorno preciso in cui mi sono seduto e mia madre mi ha raccontato la nostra storia. C’è stato però un episodio, quando ero a Palermo, che mi ha fatto scontrare con la verità. Avevo 3 anni e, alla mia festa di compleanno, un bambino mi disse: “Tanto tu non hai il papà”. Andai a piangere da mia mamma e lì ci fu la prima spiegazione. La tragica morte di mio padre è stata una consapevolezza maturata con la crescita: c’è voluto molto tempo per capire quale era la mia storia».

Ha mai sognato suo padre?
«Non che io ricordi. Probabilmente l’ho fatto. Ma al mattino i sogni svaniscono».

Deve essere stato durissimo iniziare una nuova vita.
«La svolta c’è stata nel ‘95, quando avevo 3 anni. Mia madre Rosaria, all’epoca dell’attentato, aveva 22 anni. Si ritrova sola. Cerca una spiegazione. Una spiegazione che non riesce a trovare. E probabilmente, nella ricerca di questa spiegazione, incontra quello che poi è stato mio padre. Lo conosce a Palermo. È stato, secondo me, un segno del destino, perché indossava un’uniforme, seppure diversa. Lavorava al Gico, il reparto della guardia di Finanza che fu costituito per reprimere il fenomeno mafioso. Non gli ho mai chiesto come si sono conosciuti. Ma è stato sicuramente un evento che ha cambiato il corso della vita mio e di mia madre. Nel ‘95 ci siamo trasferiti a Firenze. E lì è appunto ripartita la vita. Poi ci siamo trasferiti in Liguria: lì sono cresciuto. Ho fatto il liceo e realizzato il mio sogno: entrare nella Guardia di Finanza. Un obiettivo raggiunto anche grazie all’influenza positiva di avere un’altra divisa in casa. Il merito è di mia madre e dei valori che mi sono stati insegnati da Gianluigi, mio padre».

«LA SVOLTA NELLA MIA VITA AVVENNE QUANDO AVEVO TRE ANNI, E MIA MADRE INCONTRÒ GIANLUIGI, CHE POI MI HA CRESCIUTO»

«Vi perdono, ma inginocchiatevi». Il j’accuse di sua madre durante i funerali dopo la strage è un pezzo di storia, un messaggio ancora più forte di quella maledetta esplosione. Riesce a vedere quel video?
«Quei 2 minuti e 20 secondi sono complicati da guardare per tante persone che io conosco. Ho difficoltà a vederle anche io. Ovviamente ora li vedo con gli occhi di un uomo di 30 anni: a 16 avevo altri occhi. Ma c’è una cosa che accomuna i 16 ai 30: il senso di dolore provocato da quelle immagini. Ed è un senso di dolore che accomuna me a tutti coloro che non riescono a vedere con tranquillità quelle immagini, a meno che tu non sia senza cuore e non ti renda conto ciò che è successo 30 anni fa».

(Qui la serie podcast «Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone».


I responsabili della strage di Capaci sono stati quasi tutti individuati e condannati. Prova odio? O cos’altro?
«Io, oggi, di sicuro non provo odio. Quello che ho provato in passato, e che adesso si è acquietato, è un sentimento di rabbia. Ho sempre pensato che l’odio sia una pulsione inutile. Perché ti rende ottuso, non ti permette di ragionare. La rabbia è comunque un sentimento che ti dà anche la forza di andare avanti. Anche se io la mia situazione non l’ho mai definita, penso che la rabbia sia stata una parte della mia vita. E penso di essere riuscito a controllarla nel modo migliore, perché sennò non sarei qui oggi, con questa divisa. La rabbia, se estrema, non ti permette di ragionare, ma se correttamente incanalata ti dà l’energia anche per cambiare e fare qualcosa di utile, anche nel piccolo».

Ha fiducia nella giustizia?

«Io ho assolutamente fiducia. Non ne ho mai dubitato una volta».

Alla camera ardente a Palermo, il presidente del Senato Spadolini si avvicinò a sua madre e lei gli disse: «Presidente, io voglio sentire una sola parola: “Lo vendicheremo”. Se non può dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola». Lo Stato ha vendicato suo padre?

«Innanzitutto, non penso che lo Stato vendichi. Non esiste uno Stato vendicatore. Lo Stato non fa vendetta, fa giustizia».

«LA PRIMA VOLTA CHE HO VISTO LE IMMAGINI DELLA STRAGE È STATA DOPO CHE NE AVEVANO PARLATO A SCUOLA. MI CHIESI SOLO “PERCHÉ”?»

Cosa prova davanti alle immagini della strage?
«Io le immagini dell’esplosione a Capaci le guardo quando capita. Di certo non le vado a cercare. Così come guardo e ascolto le parole di mia madre dal pulpito, ai funerali. Le guardo in un certo modo, con un determinato sentimento. Forse è lì che nasce tutta la mia rabbia. Forse perché, da giovane, la prima volta le ho viste dopo che a scuola si era parlato per la prima volta delle stragi di mafia e le andai a cercare. Provai rabbia, amarezza. Perché? Perché? Come fa l’uomo a essere così crudele, a spingersi così tanto in là? A spingersi dove, poi?».

Che rapporto ha con la Sicilia?
«Scendo in Sicilia per le vacanze. Per andare a trovare i pochi parenti che sono rimasti».

Ha mai incontrato altri figli come lei, figli di donne e uomini uccisi dalla mafia? Cosa vi siete detti?
«Ne ho incontrati più di uno. Di recente ci siamo visti con Giovanni Montinaro, figlio del caposcorta di Falcone: l’anno scorso, nell’Aula bunker a Palermo, per le commemorazioni. In realtà non c’è bisogno di parlare. Siamo accomunati da questo. Siamo simili, non serve dire altro. Io avevo 4 mesi, lui nemmeno 2 anni: ci capiamo con uno sguardo».

Nec recisa recedit («Neanche spezzata retrocede») è il motto della Guardia di Finanza. È per questo che ha deciso di entrare nella Fiamme gialle?
«Ho scelto la Guardia di Finanza perché quella rabbia di cui parlavo prima mi ha spinto a volermi rendere utile. Mi sembrava la cosa più giusta da fare. Non ho solo seguito le orme dei miei padri. Il percorso l’ho tracciato io».

Come racconterà, un giorno, ai suoi figli chi era il loro nonno?

«È ancora presto per avere figli».

Lei si occupa di reati legati soprattutto al denaro, il motore della mafia. La mafia è diversa da quella di 30 anni fa: oggi è più forte o inchieste e condanne l’hanno indebolita?

«Questo non so dirlo. Sicuramente il metodo di indagine è cambiato. In 30 anni è cambiato tutto. Ci sono state tante vittorie e continueranno ad esserci sia grazie al nostro lavoro, sia a quello instancabile dei magistrati».

Il 23 maggio cosa farà per ricordare suo padre, i colleghi della scorta, il giudice Falcone e sua moglie Francesca?
«Saranno 30 anni. E come sempre sarò a Palermo, in quell’Aula bunker dove tutto è nato».

>La videointervista al figlio dell’agente Schifani: «Avevo 4 mesi quando la mafia uccise mio padre e Falcone»

da corriere.it


Intervista ad Emanuele Schifani figlio di Rosaria e  Vito Schifani oggi Capitano della Guardia di Finanza. (ASAPS)

Lunedì, 23 Maggio 2022
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