Sospetto
revival di coccole per il bel René. Si punta alla grazia
Tg1, interviste ai giornali, sale l’onda dell’attenzione per Renato Vallanzasca, il pluriomicida di tanti agenti condannato a diversi ergastoli. |
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(ASAPS)
– È una mamma disperata, quella che implora pietà
al Tg1, pur indirettamente, per il figlio costretto a pagare il
suo debito con la legge, così tante volte tirata giù
a colpi di pistola e poi pesticciata, dalle suole delle sue scarpe
in fuga. È senz’altro autentico anche quel pianto, come
potrebbe non esserlo? E ci dispiace. Sì, ci dispiace che
quella donna debba soffrire, ma non è l’unica, e tutto
questo revival di attenzioni attorno a quello che molti hanno chiamato
negli anni il romantico “bel René”, comincia a
insospettirci un po’. Che volete fare? Siamo sbirri, è
più forte di noi. Attenzione però a non confonderci
con i forcaioli, perché non lo siamo. Come non siamo completamente
sprovveduti. Forse ingenui, ma non stavolta – lo abbiamo già
affermato con forza –, non fino a questo punto. Il perché
è evidente: la sveglia ce la dà il Quotidiano Nazionale,
che apre con una bella foto di richiamo in prima pagina, con taglio
medio che prende tutto il tabloid, giocando con il titolo a 5 colonne
riservando al fascicolo nazionale il primato della notizia del giorno.
Ci ha ripensato, forse? Intendiamo nel dare finalmente quella risposta
sul “perché dovrebbero darmi la grazia?” . Siamo
curiosi e compriamo il giornale. E subito ci accorgiamo, non ce
ne voglia il bravissimo Gianni Leoni, che alla conta delle morti
manca uno dei più efferati delitti compiuti dall’epoca
del brigantaggio al tempo dei Borboni fino ai giorni nostri: manca
l’eccidio di Dalmine del 1977, quando il maresciallo Luigi
D’Andrea e l’appuntato Renato Barbolini, della Polizia
Stradale, vennero massacrati a un casello autostradale. Questo,
purtroppo, rende la pagina meno attendibile, meno “vera”.
Ma analizziamo l’intervista, partendo dalla considerazione
che una risposta, Vallanzasca, non la dà. Non la può
dare, semplicemente perché non ce l’ha. E secondo noi
non è pentito, non è affatto pentito. Lo rifarebbe,
quello che ha fatto. “…sono sempre stato un po’ più
in tutto… un po’ più buono… un po’ più
irrequieto… un po’ più guascone… ma in quanto
ad onestà… beh, sì, la mia onestà intellettuale
è stata grande…” Più buono? Più irrequieto?
Più guascone? Onesto? E “più cattivo”, “più
spietato”, “più assassino”? No? Ma è
lui che ha ammazzato sette persone? Una nel carcere di Pavia, a
mani nude, praticamente decapitandola con una lama di fortuna! Non
ne ha sequestrate altre 3? Non ha forse rapinato banche a ripetizione?
O dobbiamo pensare che quelle “regole diverse” che nell’intervista
dice di aver avuto, dovrebbero essere una discriminante? O dovrebbe
essere un’attenuante il fatto che quello era un atteggiamento
da delinquente onesto intellettualmente, di quelli come aveva la
Mala un tempo, quella Mala che oggi non c’è più?
Sì, perché “Renà” – preferiamo
chiamarlo così – dice che la Mala oggi è sparita.
Non c’è più, secondo lui, gente che assalta le
banche, che rapina, che uccide per un nonnulla o che si fa pagare
interventi chirurgici dallo Stato, dopo quarant’anni di latitanza.
Quella latitanza che lui non è mai riuscito a mantenere,
nemmeno ammazzando a destra e a manca. Tira fuori uno scampolo di
cultura, ma mente quando dice di aver fatto 35 anni di galera. È
stato arrestato nel 1977, e dalle nostre parti la sottrazione tira
la linea a 28.
Gli altri anni di galera forse li avrà fatti prima per altri reati, non per gli omicidi di Dalmine. Nessuno, gli ha mai detto di scappare e ammazzare ancora, di ricominciare con le rapine. Tira fuori un altro scampolo di cultura, facendo vedere che “prima” aveva attaccato al muro un testo sacro, che in bocca a lui ricorda tanto un passo di un film di Quentin Tarantino, in cui lo spietato killer di turno, Samuel L. Jackson, si dà un contegno recitando un passo tratto dal profeta Ezechiele prima di uccidere. In quel film, il killer si pente. Mostra maggiore affinità, “oggi”, con un pensiero pacifico di Milan Kundera. Per noi, è un modo di dire: “signori, ieri Pulp, oggi Fiction”. E questo introduce il divo a svelarsi. Il giornalista, che sa fare il suo mestiere, gli chiede se oggi si sia pentito. E qui, proprio non ce la fa. “Il termine pentito mi dà un po’ di voltastomaco – dice al cronista – non certo per il significato, ma per l’accezione che al vocabolo è stata data negli ultimi venti anni […] ma il pentimento cristiano, pur essendomi definito ateo convinto, penso sia una cosa talmente privata, meditata e sofferta che ne verrebbe meno il senso. A che serve contrirsi – e qui Renà non si smentisce ancora una volta – per una vita che non si ha più la possibilità di restituire neppure pagando con la propria?”. Come dire: quel che ho fatto, gente, non ha rimedio. Che volete da me? E poi continua, facendoci venire anche il mal di pancia. “Più facile parlare del rimpianto di avere imposto ai miei genitori ed alle persone che mi hanno veramente amato, l’inferno in terra… che è poi quello che mi sono regalato io… ma io almeno me lo sono cercato”. Già. Lui se l’è cercato. Non una parola per i 7 morti, per gli orfani del suo colpo sempre in canna puntualmente sparato, per le vedove della sua imprendibilità da difendere, per le sue avventure da “sciupafemmine” gonfiate ad arte – e qui gli diamo ragione – per creare un personaggio da raccontare nelle cronache rosanero. Ma la galera, è servita a qualcosa? “Che vorresti sentirmi dire -– dice al giornalista – che mi sento puro come un giglio e che la domenica servo messa almeno per tre volte consecutive? Per quello che io conosco Renato potrei dirti: no, Renato sostanzialmente non è cambiato granchè. Diverso è se parliamo del personaggio Vallanzasca. Lui non è che sia cambiato… molto semplicemente, non esiste più…” Noi, come abbiamo già detto, non ci crediamo. Possiamo credere al dolore di sua madre, alla quale possiamo contestare certe infelici esternazioni, rilasciate al Tg1, del tipo “…c’è gente che ammazza i genitori ed esce subito…” mentre “…Renato ha pagato troppo…”, ed alla quale vorremmo suggerire di non prestarsi troppo al gioco del figlio che ha fatto scempio della vita degli altri. Un gioco che sa davvero di messinscena, che non riesce a nascondere il tentativo di far credere alla bontà del nuovo Renato non più Vallanzasca, all’efficacia del sistema carcere, che lo avrebbe rieducato dopo 28 anni di isolamento ma a soli 10 anni, o poco più, dall’ultimo tentativo di evasione. Pardon, penultimo, perché l’ultimo è appena cominciato. E non è vero che Vallazasca non esiste più. È ancora lì, e aspetta. (ASAPS). |
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