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Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii

gentile. Sempre.

Platone

o scorso aprile una quindicenne è morta finendo sotto le ruote di un

treno alla stazione di Porta Susa a Torino. Dall’esame delle telecamere

di sorveglianza e dalla lettura del diario rinvenuto in casa di Beatrice,

la giovane vittima, gli inquirenti hanno dedotto che molto probabilmente

si sia trattato di un suicidio. La giovane, a quanto pare, soffriva di un

profondo disagio, in particolare a causa del suo aspetto fisico: “sono

grassa” aveva scritto proprio sul quel diario. Non so dire se ci siano stati

ulteriori approfondimenti su una tragica vicenda che non conosco nei

dettagli e sulla quale non posso dire alcunché, vorrei solo trarne spunto

per riflettere su fatti simili che purtroppo si verificano con una cadenza fin troppo

frequente.

Com’è noto l’adolescenza è un’età molto particolare nella

quale repentinamente il bambino si trasforma in giovane

e poi in giovane adulto, trovandosi a dover compiere una

serie passaggi evolutivi determinanti quanto non scontati. In

particolare sarà arduo compito di quegli anni la costruzione di

una propria identità, sia interiore, sia in relazione col mondo

sociale all’interno del quale la vita si svolge.

Si tratta sostanzialmente di trovare un proprio originale

equilibrio tra la “vocazione personale”, ossia tra ciò che più

intimamente ci appartiene e ci contraddistingue e le esigenze

della realtà sociale, con le sue regole e i suoi confini (quello

che Jung avrebbe chiamato il confronto tra l’individuale e il

collettivo).

Se una parte non è per nulla semplice comprendere chi

siamo e cosa desideriamo veramente, dall’altra è ineludibile

il confronto con il mondo che ci circonda e, aspetto esiziale,

con il giudizio che questo mondo da sulle nostre scelte, sul

nostro aspetto, su quanto o meno decidiamo di conformarci

alle mode e ai punti di vista più diffusi al momento.

Il confronto appena delineato dura tutta la vita, ma durante

l’adolescenza esso viene reso più aspro dal fatto di svolgersi

contemporaneamente con quello dei coetanei. Nella difficoltà,

si sa, è normale cercare di attaccarsi alle sicurezze, da qui

il valore di modelli rigidi cui fare riferimento, modelli ai quali

l’adolescente si rivolge in cerca di risposte precostituite e

rassicuranti. Una quota ulteriore di sicurezza sarà data dal

rivolgere la propria aggressività verso chi quei modelli non

rappresenta, perché non vuole o semplicemente perché

non può. D'altronde non tutti possiamo essere ricchi, belli e

affascinanti, ma prendersela con chi lo è meno di noi aiuta

certamente a stare meglio. Così quel processo di definizione

sociale, che inizia sin dai primi mesi quando i bambini ricevono

più o meno complimenti in base alla loro somiglianza a

modelli estetici o di comportamento precostituiti, arriva in

adolescenza a uno dei suoi punti culminanti. In quegli anni i

genitori, proprio perché il processo in atto prevede un distacco

del giovane dalle antiche figure di riferimento, non possono

più rappresentare il porto sicuro in cui rifugiarsi (ormai la

nave viaggia in un mare troppo profondo) e tutta la dinamica

emotiva si rivolge al gruppo dei coetanei, allo stesso tempo

sostegno, giudice e a volte carnefice.

Ma un ruolo determinante è anche costituito dalla cultura nella

quale siamo attualmente immersi. I valori ad oggi considerati

di riferimento puntano tutto su aspetti materiali e lo fanno

in maniera talmente rigida da lasciare poco spazio dentro

al quale muoversi. Questi valori non sono solo qualcosa di

esterno col quale il giovane deve confrontarsi, bensì vengono

lentamente interiorizzati dal singolo fino a divenire i suoi

valori, tanto da portare qualcuno a odiarsi per come è, per

come appare e per come immagina che gli altri lo giudichino.

Certo, dopo la tragedia, immancabili arrivano le parole di

amore dei compagni di classe che, sinceramente, si dolgono

per quello che è successo, ricordandosi all’improvviso che

colui o colei che ha deciso di abbandonare la competizione

in fondo aveva tante belle doti da renderla unica. Ma ormai è

tardi, e non è un’accusa questa, dato che tutti siamo coinvolti

in questa tendenza al giudizio sommario e superficiale, alla

riduzione schematica dell’unicità del singolo in categorie

semplificate. Così una persona diviene “la grassona”, un’altra

“lo sfigato”, un’altra ancora “il morto di fame” e un’altra “la bella

fica”. Si tratta di riduzioni, ruoli rigidi nei quali veniamo nostro

malgrado infilati e che per qualcuno possono diventare così

faticosi da sostenere da preferire l’uscita di scena rispetto

al “male di vivere”.

Che fare allora? Certo nessuno è in grado di cambiare i

modelli sociali e culturali nei quali viviamo. Possiamo però,

come amici, compagni di classe, genitori, fare lo sforzo di

prenderli per quello che sono, ossia grossolane proiezioni

dei desideri più comuni della nostra epoca, imparando a

non esserne noi in primis dipendenti ma avendo con essi

un rapporto dialettico e non di sudditanza.

Ovunque si legge che l’esempio è la migliore e più efficace

modalità educativa. La migliore ma anche la più difficile,

aggiungo, perché una cosa è affermare che bisogna essere

se stessi e non farsi influenzare troppo da quello che pensano

e dicono gli altri, ben altro è mostrare, anche senza parole,

che sia possibile farlo.

Dopo la tragedia e i discorsi di circostanza, prima che la

vita di tutti i giorni riprenda come sempre, potremmo allora

provare a soffermarci ancora un attimo, fino a divenire più

consapevoli di quale sia il nostro ruolo nella “commedia” in

atto e di come sia in nostro potere, seppure per una piccola

parte, di contribuire alla creazione di una società più pronta

all’ascolto e meno impositiva.

Forse, così facendo, potremo permettere a qualcuno di

salvarsi.

*Psicologo-Psicoterapeuta

Il male

di vivere

di Davide Stroscio*

Attualità

Copia dell’opera di Munch “L’urlo”