Eh sì, la differenza è proprio questa. Il nostro Ivan Liggi, omicida ma non assassino – come dicono gli amici di Poliziotti.it – non può permettersi il lusso di parlare in qualche convegno. Non può permettersi nemmeno di parlare, dalla sua cella del carcere di Forlì, dove sconta una condanna definitiva per omicidio volontario. Lui, mentre gli interessi del risarcimento che dovrà pagare al ministero dell’Interno crescono al ritmo di 10 euro al giorno, non può nemmeno andare su Internet, non può nemmeno votare, mentre uno dei condannati a 30 anni per l’assassinio di Fausto Dionisi, agente di polizia abbattuto a Firenze durante un assalto al carcere delle Murate nel 1978, è diventato addirittura parlamentare, ed ora siede a Montecitorio, in qualità di segretario della camera: non ci pare che siano ancora trascorsi 30 anni dalla notte in cui il componente di Prima Linea, ora onorevole, privò figli di un padre. Il suo sorriso di uomo arrivato non ci piace. Ecco, questa è una vergogna: sbeffeggiare i difensori della Costituzione, caduti per garantirne l’integrità, per salvare la società dall’assalto di irriducibili armati. Si parla solo di indulto, di grazia, come se questa misura potesse mettere fine agli anni di piombo, come se potesse riconciliare il nostro popolo, troppo diviso nel dopo guerra. Qualcuno, che si dice “senza pistola”, come se avesse davvero rischiato la propria vita tanto quanto chi l’ha poi effettivamente lasciata su un marciapiede insanguinato, vorrebbe dare la grazia ai serial killer della mala, per sancire che in fondo si deve credere che anche il peggiore degli uomini può cambiare e diventare buono. Noi non ci crediamo. Noi vogliamo rispetto e se proprio non ce lo meritiamo, pretendiamo che la Costituzione venga rispettata e che ci sia parità di trattamento. Sofri la Grazia non l’ha chiesta, qualcun altro sì. A Sofri riconosciamo un certo coraggio e una grande coerenza, la stessa che invece non hanno avuto le centinaia di belle persone che negli anni successivi alla morte del commissario Calabresi hanno fatto finta di non aver firmato quel manifesto che indicava il funzionario di polizia crivellato di colpi sotto casa come l’assassino dell’anarchico, venuto giù dalla stanza degli interrogatori della questura milanese. In quella stanza Calabresi non c’era, ma ormai la sua condanna era scritta e venne puntualmente eseguita. Ivan Liggi, il nostro Ivan, quando prese servizio non sapeva a cosa andava incontro. Non sapeva che di lì a poco la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Ha ammesso le sue colpe, ha chiesto perdono ed ha chiesto anche la grazia. Ma mentre a qualcuno gliela vogliono dare per forza, a lui che la chiede con tutto il fiato che ha in corpo, a lui il cui padre vaga per l’Italia a vendere libri per pagare il debito che nessuno cancellerà – lo facciamo per i paesi poveri, ma non per lui – non si sono presi nemmeno la briga di rispondere. La nostra voce però, quella di tutti i suoi amici che non ha ancora conosciuto e che l’aspettano fuori delle mura di quella galera, sostiene il suo grido di dolore e di disperazione, che continua come un incubo a rimbombare dopo l’unico colpo di pistola sparato da Ivan al di fuori di un poligono di tiro ed andato purtroppo maledettamente a segno. È un grido che ripete una parola sola, rivolta allo Stato che aveva giurato di difendere e che lo ha abbandonato al suo destino. Aiuto. Ivan deve avere la Grazia, perché non è un assassino. Se lo fosse stato, gli avrebbero dato 30 anni, o l’ergastolo. Ne deve scontare Signor Presidente, dimostri la stessa determinazione e conceda a questo giovane di vivere la sua vita. Alla classe politica, tutta, rammentiamo che quelli con la divisa dello Stato muoiono anche per loro. | |