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Corte di Cassazione 19/05/2006

Da Altalex - Parcheggio irregolare in area condominiale può integrare la violenza privata

Cassazione , sez. V penale, sentenza 20.04.2006 n° 16571

Un parcheggio irregolare può costare la reclusione fino a 4 anni.

A dirlo (rectius: ribadirlo) è la Corte di Cassazione con la sentenza 16 maggio 2006 n°16571, che si colloca nel solco di una giurisprudenza che va consolidandosi e scrive un’altra pagina importante in materia di cd. atti emulativi della strada.

La fattispecie - Nella fattispecie, l’imputato, introdottosi con la propria vettura, in altrui area condominiale, aveva parcheggiato il mezzo in modo tale da impedire l’uscita sulla pubblica via all’auto della parte offesa, rifiutando di spostarsi una volta invitato da quest’ultima. Il giudice di prime cure aveva condannato l’imputato per violenza privata (che punisce “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare, od omettere qualche cosa”).

La parte ricorrente non aveva condiviso la sentenza di condanna e con ricorso aveva contestato, dinnanzi al Collegio degli ermellini, la configurazione del delitto ex articolo 610 Cp sul rilievo che, nella specie, avrebbero fatto difetto la violenza fisica ovvero la minaccia.

E la Cassazione, con la sentenza in esame, da ragione al giudice di merito.

Parcheggiare da “criminali” - Ad avviso della Suprema Corte “nel reato di violenza privata (articolo 610 Cp), il requisito della violenza, ai fini della configurabilità del delitto, si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l’offeso, il quale sia, pertanto, costretto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà; nella specie, la sentenza ha descritto un fatto di voluta intenzione dell’imputato di mantenere il proprio veicolo – già parcheggiato irregolarmente in un’area condominiale alla quale non aveva diritto di accedere (“condominio a lui estraneo”) – in modo tale da impedire alla persona offesa di transitare con il proprio veicolo per uscire sulla pubblica via, rifiutando reiteratamente di liberare l’accesso, pretendendo “con evidente protervia ed arroganza” che la persona offesa attendesse secondo proprie necessità (la “discesa” della sorella), e tanto basta per integrare la violenza quale normativamente prevista”.

La sentenza in esame sposa l’ermeneutica accolta nel precedente giudiziario dell’anno passato, nell’ambito del quale il Collegio si era interessato di una fattispecie del tutto analoga generando anche l’attenzione delle cronache (già su Altalex, Cassazione , sez. I penale, sentenza 04.07.2005 n° 24614 “Auto in doppia fila: il rifiuto di spostare il veicolo integra il reato di violenza privata”, v. Guida al Diritto, 2005, 35, 104): in quella occasione l’imputato aveva parcheggiato la propria autovettura dietro quella della parte offesa e aveva posto un rifiuto all’invito di quest’ultima di spostarla per potersi allontanare.

Lina di confine tra atto incivile ed atto delittuoso - Il tratto comune delle pronunce è da rinvenire nella linea di confine, tra condotta incivile e condotta criminosa, tracciata dal Collegio: il delitto di violenza privata, infatti, fa capo a quella condotta dell’agente che sia idonea a produrre una coazione personale del soggetto passivo, privandolo della libertà di determinarsi e di agire in piena autonomia; deve venire in rilievo, cioè, una coazione della persona offesa ad un comportamento non liberamente voluto.

Ne discende che il “fatto giuridico” di cui si tratta, ovvero il parcheggio irregolare, deve essere scomposto nelle sue componenti fattuali al fine di individuare il momento offensivo al bene giuridico tutelato e, dunque, la perfezione del reato.

1. il soggetto agente parcheggia irregolarmente; 2. il parcheggio paralizza l’autovettura di altro utente della strada che resta bloccata; 3. alla richiesta di spostare l’autovettura, l’agente oppone il proprio rifiuto.

Il reato si perfeziona con il rifiuto - Così individuati i segmenti storici del fatto, è indubbio che il delitto di violenza privata si perfezioni in tutti i suoi elementi solo al momento del rifiuto e non a quello del semplice parcheggio irregolare: il delitto in esame, infatti, presenta sotto il profilo soggettivo un quid pluris essendo la condotta diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa, con evento di danno costituito dall’essersi l’altrui volontà estrinsecata in un comportamento coartante (dolus).

Il reato, infatti, si completa nel rifiuto e non nel mero elemento oggettivo che, in sé considerato, non assume le connotazioni offensive richieste dall’art. 610 c.p.

E chi parcheggia allontanandosi senza cura del mezzo altrui? – Nonostante quanto sin qui detto, in verità, un dubbio si insinua: si tratta della condotta dell’automobilista che parcheggi paralizzando l’auto di altri e si allontani consapevole di aver “bloccato” il mezzo altrui (la casistica più frequente). Sembrerebbe, in tali casi, potersi rinvenire un dolo eventuale (ma non senza qualche forzatura) e, in ogni caso, il prodursi dell’effetto dannoso in capo alla parte offesa costretta a rimanere ferma per il tempo dell’attesa. Una interpretazione teleologica e funzionale della norma in esame dovrebbe abbracciare la tesi positiva: anche la semplice omissione può rappresentare un gesto di arroganza ed inciviltà idonea a realizzare una condotta violenta ai sensi dell’art. 610 c.p.

Dal reato all’illecito amministrativo – Per completezza della disamina, è opportuno precisare che le condotte in analisi, qualora non orbitino nella fattispecie delittuosa di cui all’art. 610 c.p., possono essere sussunte sotto l’illecito amministrativo di cd. “blocco stradale” previsto dal d.lgs 22 gennaio 1948, n. 66 (norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione, depenalizzato dal d.lg. 30 dicembre 1999, n. 507) il quale punisce chi impedisce o ostacola la libera circolazione ovvero depone od abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata

Precedenti: il malcostume stradale – La giurisprudenza di Cassazione non ha affrontato le condotte incivili degli utenti della strada solo negli anni più recenti: i precedenti rinvenibili sono, anzi, anche risalenti. Gli ermellini, ad esempio, hanno ritenuto che integri il delitto di violenza privata la condotta di guida intimidatoria (Cass. pen. sez. V, n. 2545/1985); stessa sorte è toccata agli atti emulativi della strada perpetrati durante la percorrenza del senso di marcia (Cass. pen. sez. IV, n. 13078/1989) ed alle manovre deliberatamente insidiose ai danni altrui (Cass. pen. sez. I, n. 32001/2002).

Codice di comportamento del buon utente della strada - La giurisprudenza in esame merita di essere sicuramente salutata con favore. In altra occasione, si era già evidenziato che “le regole morali di buona condotta ed in generale quelle etiche di civiltà sociale, nell’ambito della circolazione stradale, sembrano penetrare più facilmente nel tessuto giuridico” concedendo alle “vittime” delle emulazioni altrui una tutela forte ed efficace, (il caso era quello dei cd. gestacci al volante, già su Altalex, Cassazione , sez. V penale, sentenza 21.12.2005 n° 4033, Gestacci al volante sono idonei ad integrare il reato di minaccia). Ciò che, infatti, una volta si reputava meramente incivile, riprovevole ma pur sempre non giuridico, diviene oggi, al contrario, materia del giudice penale, idonea a sorreggere una sentenza di condanna anche rilevante.

Ed il monito resta lo stesso: tempi duri per chi non controlla i nervi al volante.

(Altalex, 18 maggio 2006. Nota di Giuseppe Buffone)


 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
SENTENZA 20 aprile-16 maggio 2006, n. 16571

(Presidente Foscarini – Relatore Marini)

La Corte osserva

B. Teresa e B. Paolo ricorrono per cassazione, a mezzo del comune difensore, avverso la sentenza 20 aprile 2005 della Corte di appello di Palermo che, investita del gravame dagli stessi proposto avverso la sentenza 15 gennaio 2004 del Giudice del Tribunale di Palermo che li aveva condannati rispettivamente alla pena di euro 300 di multa per il reato di ingiuria ed alla pena di mesi tre e giorni dieci di reclusione per il reato di violenza privata (pene entrambe sospese) – reati entrambi commessi in persona di D. Antonio in data 1 giugno 1999 – ha confermato integralmente la pronuncia di primo grado.

Quali mezzi di annullamento, i ricorrenti prospettano:

1) erronea applicazione dell’articolo 192 Cpp, nonché difetto, illogicità e contraddittorietà della sentenza, sul rilievo di acritica ed illogica adesione alla narrazione accusatoria della persona offesa, prescelta a fronte di disinteressate testimonianze di segno opposto;

2) erronea applicazione degli articoli 594 e 610 Cp, sotto il primo profilo difettando le espressioni pronunciata da B. Teresa di idoneità lesiva dell’altrui onore, e sotto il secondo profilo riconducendosi il fatto nell’ambito di un mero “battibecco verbale”.

Il giudice di merito ha ricostruito in fatto l’episodio nel senso che il B. Paolo, introdottosi con la propria vettura, in altrui area condominiale, parcheggiò il mezzo in modo tale da impedire l’uscita sulla pubblica via all’auto del D., rifiutando di spostarsi una volta invitato, pretendendo che esso D. dovesse attendere l’arrivo della sorella Teresa la quale, a sua volta, gli rivolse l’espressione «a questo la casa gliela hanno regalata…a noi ci dà fastidio l’esistenza sua e della sua famiglia e che sono dei pazzi»; tale ricostruzione ha fondato sulle “dichiarazioni testimoniali acquisite”.

A fronte di tale motivazione, sono evidenti i profili di inammissibilità del primo motivo, che riguarda la sola B. Teresa; e, ciò, sia laddove del tutto genericamente assume l’inattendibilità delle dichiarazioni, in quanto contraddittorie ovvero mendaci, della persona offesa, ovvero prospettata, secondo personale riflessione, un diritto del “visitatore” cioè del B. Paolo, ad una sorta di “precedenza” nei riguardi del condominio, o, infine, oppone che i testi si sarebbero limitati a riferire di “voci concitate”, attestative essere stesse di un litigio verbale cui si è resa compatibile la narrazione di espressioni offensive quale resa della persona offesa.

Quanto alla valenza offensiva delle parole pronunciate da B. Teresa, poi, il ricorso omette palesemente di considerare l’espressione «a noi ci dà fastidio l’esistenza sua e della famiglia, sono dei pazzi», chiaramente lesiva dell’altrui patrimonio morale in quanto attributiva al destinatario di una condizione di squilibrio mentale; e, per concludere sul primo motivo, costituisce mera rilettura del fatto la prospettazione di una reazione del B. Paolo ad un atto di “prepotenza” del D..

Quanto al secondo motivo, palesemente privo di pregio è l’assunto che nella B. Teresa avrebbe fatto difetto l’animus iniuriandi essendo noto che l’ingiuria è reato a dolo generico e l’effettiva intenzione di ledere l’altrui patrimonio morale no è richiesta, salvo che nelle ipotesi – estranee alla fattispecie – nelle quali la carica ingiuriosa delle espressioni dipenda da circostanze di fatto speciali e contingenti.

Destituito di fondamento, poi, è il terzo motivo, con il quale si contesta la configurazione del delitto ex articolo 610 Cp sul rilievo che, nella specie, avrebbero fatto difetto la violenza fisica ovvero la minaccia.

Vero è, infatti, che nel reato di violenza privata (articolo 610 Cp), il requisito della violenza, ai fini della configurabilità del delitto, si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l’offeso, il quale sia, pertanto, costretto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà (Cassazione, Sezione quinta, 17 dicembre 2003 rv 228063); nella specie, la sentenza ha descritto un fatto di voluta intenzione dell’imputato di mantenere il proprio veicolo – già parcheggiato irregolarmente in un’area condominiale alla quale non aveva diritto di accedere (“condominio a lui estraneo”) – in modo tale da impedire alla persona offesa di transitare con il proprio veicolo per uscire sulla pubblica via, rifiutando reiteratamente di liberare l’accesso, pretendendo “con evidente protervia ed arroganza” che la persona offesa attendesse secondo proprie necessità (la “discesa” della sorella), e tanto basta per integrare la violenza quale normativamente prevista.

Al rigetto dei ricorsi consegue la solidale condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma il 20 aprile 2006.

Depositata in cancelleria il 16 maggio 2006.

 


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Venerdì, 19 Maggio 2006
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