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Articoli 05/05/2006

Il Centauro in letteratura


 “E tra ‘l piè della ripa ed essa, in traccia/ corrìen Centauri, armati di saette,/ come solìen nel mondo andare a caccia”. E’ un verso di Dante (Inferno, 12, 56). Qui il Sommo Poeta, in pochissime parole, riassume la dimensione di queste creature mostruose, talmente perversa che, addirittura nell’Inferno, esse non hanno alcun bisogno di mutare alcunché della loro lontana apparenza. Come infatti, secondo l’antica mitologia greca, sulle montagne della Tessaglia andavano a caccia, feroci e abilissimi nella corsa e nel tiro, violenti e crudeli verso gli uomini, così i Centauri riappaiono nell’Aldilà. L’attitudine che li aveva contraddistinti nella vita terrena era già perfetta per incaricarli di cacciare, vessare, incrudelire sui dannati, nello scenario dell’Inferno.  Il Centauro, come si sa, era uno strano, ibrido essere, metà cavallo, di cui aveva il dorso, le quattro zampe e la coda, e metà uomo, di cui aveva il busto, le braccia e la testa (tanto che, aderendo a una definizione più aderente al dato semantico, Victor Hugo, ne’ “I Miserabili”, li chiamerà poi “ippantropi”). Dante, in quei versi (come in altri) li consacra come icone letterarie e dà il viatico a una figura che poi diventerà un classico della letteratura, su cui altri grandissimi poseranno il loro occhio per richiamarli nelle più drastiche similitudini, o anche solo per evocarli nella loro potenza espressiva.  Così Machiavelli, in maniera esemplare (Principe, 34), trae dal Centauro una raffigurazione addirittura dell’indole umana: “Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura”. Il Tasso, a sua volta, ritorna su questo tema, laddove (Gerusalemme Liberata, II-III-772) scrive: “l’uomo da greci teologi fu assomigliato al centauro, sì come colui che avendo insieme la ragione e ‘l sentimento, par che congiunga la natura divina con quella delle fiere”.  

Il Centauro, dunque, come allegoria della doppiezza umana, della gracile ed esplosiva commistione fra il bene e il male, che, come intuì con terribile lucidità Nietzsche, nell’uomo non sono entità distinte, ma sono, sempre e pericolosamente, intimamente intrecciati.  Nella storia, soprattutto ai tempi delle invasioni barbariche, abbiamo avuto esempi di guerrieri che, per la loro tecnica, l’abilità e l’efferatezza, si sono avvicinati al mito del Centauro. Su tutti, forse, i Mongoli. La loro calata in Europa, nella metà del tredicesimo secolo, e soprattutto la loro ritirata unilaterale, è l’esempio di come noi occidentali abbiamo potuto prosperare, crescere, civilizzarci (e poi arrivare a certe degenerazioni odierne) solo per un imprevisto della sorte, che ci ha favorito. Senza quell’imprevisto, forse avremmo vissuto in schiavitù per secoli.

 La storia è questa. Sotto la guida di Batu Khan, grande condottiero, all’incirca nel 1240 i Mongoli, seguendo il loro dilagante disegno di espansione imperiale (legittimo, forse: non l’avevano già fatto Romani, Macedoni, Cinesi, Arabi, Ottomani?) sbaragliano le truppe russe, devastano la Galizia, l’Ungheria e giungono alle soglie di Vienna e nei pressi dell’Adriatico. Le potenze europee cercano di coalizzarsi, ma inutilmente. La inaudita. Fino a quando, alle loro spalle, si presenta un messo che, diligentemente, ha attraversato tutte le steppe dell’Asia e reca un messaggio della moglie del Khan. Il Khan è morto. Bisogna rientrare alla base per accordarsi sulla successione. I terribili guerrieri mongoli levano le tende, girano il loro caratteristico muso di nuovo verso est e se ne vanno. Non torneranno mai più, almeno in Europa. Se ciò non fosse successo, ci sarebbe stato un Rinascimento? L’età delle Signorie? E tutto ciò che dopo ne è derivato, rivoluzione francese compresa? Forse no. La particolarità che forse rendeva invincibili i Mongoli era la loro capacità, unica, di cavalcare in piena velocità a briglia sciolta e, contestualmente, di girarsi con estrema facilità e scagliare frecce, come di avvicinarsi all’avversario in fuga, placcarlo, trafiggerlo, dilaniarlo nel corpo a corpo. Riuscivano, cioè, a fondersi perfettamente con il cavallo, a costituire un entità integrata fra il corpo equino e il guerriero. Erano Centauri, insomma. Con i Mongoli, forse anche i mitici Centauri della Tessaglia avrebbero avuto seri problemi.  Ma torniamo ai centauri in letteratura. Sappiamo tutti che la parola “centauro”, oggi e da tempo, nel suo significato volgarizzato, indica il guidatore spericolato e virtuoso, abile a maneggiare una moto potente e veloce. Vasco Pratolini (“Cronache di poveri amanti”), ad esempio, ne tratta quando narra di un sidecar, “stella cometa che annunzia il diluvio agli uomini di buona volontà. Lo guida un San Giorgio di due metri, a testa nuda, le labbra tra i denti e gli occhi fissi all’orizzonte: un centauro mitologico che indossa una giacca operaia”. Si affacciano qui i nostri tempi e altri miti. Come dimenticare, allora, il grande film “I diari della motocicletta”, sulla giovinezza del Che, centauro a spasso per le lande del Sudamerica in un viaggio catartico di iniziazione alla maturità?

 Ma veniamo proprio ai nostri tempi, a quelli di adesso, o almeno degli ultimi dieci anni. Abbiamo detto cosa scriveva Machiavelli, richiamando la figura del centauro nella sua metafora del potere. Scriveva che “bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura”, di “uno mezzo bestia e mezzo uomo”. Normale. La folla, la moltitudine, si sa, è sempre stata come una donna, vuole essere presa, con tutti i mezzi, spicci e anche un po’ brutali, perché un po’ di violenza non guasta. Dà fascino, almeno all’inizio.  Oggi, però, non è più così, oggi che il potere nasce e si struttura con l’insinuazione e la presenza mediatica. Oggi il principe non deve essere più mezzo uomo e mezzo bestia. Magari, forse, deve essere mezzo uomo e mezzo virus. E gli unici centauri restano quelli della motocicletta.

*Gip presso il Tribunale di Forlì  


© asaps.it

Di Michele Leoni

Da "il Centauro" n.102
Venerdì, 05 Maggio 2006
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