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Articoli 06/03/2006

RICOSTRUIAMO LA STAGIONE DEI LANCI DI QUESTI LAPIDATORI ASSASSINI

Analisi del fenomeno vetusto e ormai globale, profilo dei “lanciatori”, come difendersi, l’evoluzione del processo penale.

Lancio sassi – Inchiesta Asaps
RICOSTRUIAMO LA STAGIONE DEI LANCI DI QUESTI LAPIDATORI ASSASSINI
Analisi del fenomeno vetusto e ormai globale, profilo dei “lanciatori”, come difendersi, l’evoluzione del processo penale.
Di Lorenzo Borselli



Ogni inchiesta, non solo giornalistica, nasce da un’ispirazione. Lo è, a volte, il semplice fatto che un evento accade, con modalità tali da mettere gli investigatori sulle tracce del reo o i reporter sul filo della storia. Altre volte ancora, è il ripetersi del fatto, in una sorta di serial crime, o la particolare gravità dello stesso, che stuzzica la curiosità della gente, ne attira l’attenzione suscitando emozioni contrastanti e fungendo da ispirazione a sua volta, innescando comportamenti emulativi o fenomeni di ammirazione: si prenda, per esempio, la figura di Unabomber, o dell’esercito impunito degli avvelenatori delle bottiglie d’acqua, fino agli episodi di approvazione nei confronti di criminali incalliti, come Renato Vallanzasca (tanto per dirne uno), o degli autori di efferati omicidi come Erika ed Omar o il più lontano nel tempo Pietro Maso, fino ad arrivare al lancio dei sassi dai cavalcavia. Lo speciale osservatorio che l’Asaps ha istituito da molti anni, con lo scopo di monitorare il fenomeno, ci consente di partire da un punto di vista diverso, meno emozionale e più riflessivo, destinato però a lanciare inquietanti scenari su questa fattispecie di ordinaria, purtroppo, violenza stradale. Per la maggior parte delle persone, infatti,

il fenomeno dei lanci è opera del solito branco di giovinastri italiani afflitto dai mali dell’era moderna — ed in parte è vero — e pretende per la propria sicurezza contromisure da parte delle autorità, cercando magari spiegazioni sul disagio sociale di chi impugna una pietra e la scaglia contro un perfetto sconosciuto segnandone il destino, partendo però da un punto di vista sbagliato. L’errore è costituito dalla falsa idea che si tratti di un fenomeno sporadico e nuovo, o semplicemente ricorrente, senza però accorgersi che in realtà la fenomenologia è tutt’altro che una novità, ed il terrore dei lapidatori assassini corre da decenni sui cigli delle strade veloci, senza soluzione di continuità. Non c’è insomma una nuova stagione dei lanci, come sostengono molti cronisti, ma più semplicemente, secondo noi, un evento mortale che riaccende le luci della ribalta. Il problema vero è che un’effettiva azione di prevenzione e contrasto non è affatto facile da mettere in pratica, anche se molto è stato fatto su questa strada: un grande passo in avanti — unico nel suo genere nel mondo, tanto che negli Usa ci si batte da decenni per innalzare le reti dei cavalcavia — è stata la numerazione dei cavalcavia dell’intera rete stradale italiana (fatto questo sul quale, come Asaps rivendichiamo la paternità fin dal 1997, con una serie di specifiche e puntuali proposte sul tema), l’elevazione delle recinzioni, e la predisposizione di una fittissima rete di videosorveglianza in ambito autostradale, ma è di fatto impossibile impedire l’iniziativa degli sconsiderati, troppo spesso in azione lontano dai clamori e dalle attenzioni. Nella zona grigia dell’oblio mediatico, ci sono da un lato le vittime o i loro parenti, e dall’altro gli operatori di polizia, chiamati a dare un nome agli autori di gesti sconsiderati e criminali, certo, ma troppo frequentemente occasionali per lasciare tracce percettibili anche al migliore investigatore. In questo c’è comunque da dire che ben più difficile si è dimostrato catturare Unabomber, visto che i lanciatori assassini vengono nella maggior parte delle volte identificati e catturati, mentre il bombarolo che terrorizza il Triveneto ormai da 15 anni resta ancora senza nome. Tornando alla questione del lancio sassi, l’Asaps ha tenuto il conto degli episodi, lanciando perfino un occhio all’estero, scoprendo così che i cecchini dei cavalcavia sono dappertutto. Questa piccola inchiesta si propone dunque alcuni obiettivi:

  1. la dimostrazione che si tratta di un fenomeno vetusto e, ormai, globale.
  2. l’evoluzione del processo penale nel giudizio dei colpevoli identificati;
  3. la possibilità che la società ha di difendersi;
  4. il profilo del lanciatore;
  5. la descrizione ed analisi della fenomenologia;

Su questa forma di attacco, che potremmo definire un atto sovversivo dell’ordine della libera circolazione, la società sta cercando di trovare le giuste contromisure, ma è un fatto che questo tipo di iniziative, per quanto stiano evolvendo le tecniche investigative, è parte di una criminalità border line, per la quale le azioni preventive e repressive da parte delle forze di polizia rischiano di essere meno incisive, perché difficilmente stereotipabili. L’ignoranza degli autori circa le tecniche utilizzate dalla polizia giudiziaria può rivelarsi un vantaggio solo momentaneo, vista la puntuale descrizione che ne viene subito proposta dagli organi di stampa.

1. La descrizione ed analisi della fenomenologia.

Si fa presto a dire lancio sassi: la recente storia della criminalità stradale, in questo specifico settore che potremmo definire relativo al sabotaggio della libera circolazione, indica con certezza che anche sulla tipologia dei "proiettili" usati dai vandali non si può disquisire in termini assoluti. Si pensi infatti che a partire dal dicembre 1996, una sorta di psicosi collettiva sembrò impadronirsi dei viaggiatori sulle nostre autostrade: in quell’anno venne infatti uccisa, nei pressi di Alessandria, la giovane Maria Letizia Berdini, colpita da un macigno scagliato da un gruppo di ragazzi, tutti identificati e condannati. Il clamore di quel terribile episodio fu tale da innescare una reazione a catena infinita, con migliaia di segnalazioni, centinaia di auto danneggiate e moltissime persone sorprese in flagranza coi sassi in mano. Di seguito e con un forte movimento dell’opinione pubblica, su nostra precisa iniziale reiterata richiesta, arrivò la numerazione dei cavalcavia, delle pattuglie in sosta fissa sui sovrappassi più pericolosi, degli sguardi terrorizzati verso quei ponti divenuti improvvisamente archibugi caricati a mitraglia e pronti a vomitare contro gli automobilisti ogni specie di cartucciame: sassi, spranghe di ferro, vasi di terracotta, telai di ciclomotori e perfino gatti. All’epoca si parlò di fenomeno in atto da tempo, e le cronache fecero risalire al 1986 il primo episodio, anche se negli archivi dell’Asaps è stata trovata traccia di un terribile omicidio avvenuto nel 1984 a Pegognaga, dove una turista tedesca venne uccisa dal lancio di un paracarro da un cavalcavia. Nel 1997, a Catania, qualcuno lanciò una palla da bowling contro le auto che stavano transitando sotto la campata di un sovrappasso, mentre un gatto — che la vittima disse aver visto essere stato lanciato da un gruppo di ragazzi — sfondò il parabrezza di un’auto in Piemonte. Sulla scia di questo apparentemente inedito terrore, si chiese l’istituzione di una taglia per identificare i responsabili e l’impiego dell’esercito per vigilare le strade siciliane, ma presto avremmo tutti scoperto la globalità del fenomeno: il 17 agosto 1997 l’auto di Sean Connery venne presa di mira da un teppista mentre percorreva una statale inglese: il mattone scagliatole contro sfondò il vetro anteriore, e solo la prontezza di riflessi dell’ex 007 consentì al veicolo di restare in strada. Reca invece la data del febbraio 2000 la notizia che a Darmstadt, nel land tedesco dell’Assia, due donne, di 20 e 41 anni, avevano perso la vita dopo che la loro auto era stata investita da un masso fatto cadere da un cavalcavia della statale B3 Heidelberg-Francoforte, provocando il ferimento grave di altre 5 persone, tra cui l’anziana nonna 75enne delle vittime. In carcere finirono 3 giovanissimi americani (figli di militari Usa di stanza in una base vicina) di 14, 17 e 18 anni, arrestati su segnalazione della popolazione. Messi alle strette, confessarono decine di altri lanci e vennero condannati per duplice omicidio; il 18enne si trova ancora in un carcere. Il 27 gennaio 2003, negli Stati Uniti, una donna è morta dopo essere stata centrata da una stalattite di ghiaccio scagliatale addosso da un 14enne che si trovava su un cavalcavia; l’adolescente è stato poi arrestato da agenti federali e finito in carcere con una condanna a 40 anni per omicidio volontario e tentata strage, mentre nel novembre 2004 un’altra donna è finita in coma dopo che un gruppo di balordi aveva fatto cadere un tacchino contro la sua auto dall’alto di un parapetto. Si tratta di eventi appena filtrati nelle nostre cronache, in cui anche l’eco dell’incessante attività dei guastatori dei cavalcavia italiani è divenuta, fino all’ultimo terribile episodio, un’ignorata e triste consuetudine, come dimostra invece il dato che proviene dalla Polizia Stradale, alla quale fanno capo tutte le segnalazioni. Dal 2000, secondo il Ministero dell’Interno, 735 veicoli hanno riportato danni conseguenti a lancio doloso di oggetti, rinvenuti e sequestrati in 526 occasioni. 9 persone sono state arrestate ed altre 13 denunciate a piede libero, mentre per alcuni eventi è stata accertata la presenza di 27 minori. Nei primi 7 mesi del 2005, invece, sono stati documentati almeno 50 lanci, con 64 veicoli danneggiati. Sono state accertate, in numerose occasioni, false denunce, sporte da conducenti che intendevano così ottenere rimborsi indebiti dalle proprie compagnie assicurative: il computo di questi eventi non appartiene alla statistica del fenomeno, ma è stato inserito nel conteggio delle denunce a piede libero. Non possiamo prendere in considerazione, almeno in questa sede, l’epidemiologia della fattispecie, ma il numero di lanci è davvero impressionante, anche se la maggior sicurezza offerta dai veicoli, con cristalli maggiormente resistenti e spesso dotati di pellicole antisfondamento integrate nella struttura, risulta aver inciso in maniera determinante sull’esito degli atti teppistici. Lo stesso evento di Cassino non ha avuto come fattore letale il contatto tra la gigantesca pietra utilizzata dai killer e la struttura della prima vettura e subito dopo contro il corpo del suo occupante. Secondo la ricostruzione degli uomini della Polizia Stradale, infatti, il macigno di 41 kg è stato fatto cadere dal cavalcavia numero 439, dopo avergli fatto superare una recinzione alta più o meno due metri. Peso del masso e struttura del manufatto non avrebbero infatti consentito un’azione di lancio vera e propria. Una volta toccato il suolo, la pietra si è conficcata nell’asfalto dell’arteria, che in quel tratto è di tipo drenante, provocando un’incisione sul piano viabile di circa 4 centimetri di profondità. A questo punto, un veicolo in transito ha investito il macigno, che si è incuneato sul blocco motore proiettandolo verso l’alto: una leva micidiale, resa ancora più potente dalla velocità elevata che un veicolo tiene sempre, in autostrada, capace di imprimere al propulsore dell’auto una forza così elevata da sfondare il cofano. L’auto sbanda e si ribalta nella scarpata, ma il suo motore resta in mezzo all’asfalto, sulla rotta della Golf condotta da Natale Giuffré. è un impatto terribile, a seguito del quale l’auto di ribalta: Giuffré muore poco dopo, mentre i suoi tre compagni di viaggio, tra cui il figlio 15enne, finiscono in rianimazione.

2. Il profilo del lanciatore.

Il titolo non è esatto, visto che nella stragrande maggioranza delle identificazioni di lanciatori operate nel corso di oltre un ventennio, si è sempre trattato di gruppi, e quasi mai di un singolo. Comunque sia, sempre di gesti assurdi si tratta: senza movente e senza quell’ingiusto profitto che caratterizza la gran parte delle azioni criminali. Insomma, un atto criminale autonomo, fine a se stesso e per questo assolutamente inutile e vuoto, e se possibile ancora più crudele. Secondo alcuni esperti, gli episodi non possono essere definiti semplici bravate, ma frutto di una più articolata e ben motivata intenzione. Questo ci trova d’accordo, mentre avanziamo qualche dubbio, ci venga consentito per la nostra esperienza, sulla teoria della crisi attuale dei valori etici e morali della nostra società. Questo potrebbe andare bene se fossimo davanti ad un fenomeno inedito, ma così — come vedremo poco più avanti — non è. C’è una costante, nell’evolversi della società: è la presenza di un disagio per alcuni dei propri componenti, che nel bianco e nero della vita trovano una propria sfumatura di grigio in un limbo tra le accezioni di termini come violenza e rispetto, tra una nuova borghesia che arranca ed una classe — ci venga perdonata l’odiosa definizione — che ci ostiniamo a non voler definire povera. Povera non solo in termini economici, ma anche e soprattutto culturali, in modo strettamente concatenato tra loro. Un humus che aveva provato ad esplorare Pierpaolo Pasolini, pagando con la vita, e che conoscono meglio di noi criminologi come Vittorino Andreoli. Sembra prevalere una voglia di violenza, manifestata come una sorta di insaziabile appetito, che parte dal bullismo per arrivare alla prepotente spavalderia che moltissimi, di tutte le età, ostentano nei rapporti con il prossimo, a partire proprio nel contatto con le divise, passando per le scuole, in coda alla posta o al semaforo. In questo, il branco gioca un ruolo determinante: l’agire in collettività aumenta il coraggio, allenta le inibizioni, annulla le capacità di ragionamento, spinti dal desiderio di dimostrare le proprie determinazioni pur di farsi accettare: sono tanti, ancora oggi, che ricordano i pestaggi fascisti. Molte camice nere, nella vita privata, erano persone squisite, pronte a diventare bestie non appena inserite nel proprio gruppo. Di certo, non siamo davanti ad un problema nuovo, esattamente come la minaccia degli Ultras o come — ne siamo infestati — i piromani, pur ognuno con le proprie peculiari differenze. Non è stata quasi mai rilevata la premeditazione degli atti, che vengono operati quasi sempre quando il branco sragiona, quando vengono smarriti i confini tra il bene e il male. In questo sembra sempre giocare un ruolo determinante l’abbondante consumo di alcol o sostanze stupefacenti, che innescano e accelerano una reazione a catena comportamentale che trova spunto nella noia di una serata senza far nulla, dal bar alla scorreria in motorino o in auto, fino alle evoluzioni ed azioni di vandalismo più comune fino ad arrivare ad un cavalcavia o ad una scarpata ferroviaria, ma anche ad un’opera monumentale.

3. La possibilità che la società ha di difendersi.

Lo studio della dinamica degli episodi ha dimostrato che nemmeno radere al suolo le migliaia di cavalcavia che ci sfilano sopra la testa, servirebbe a qualcosa: poche ore prima il lancio killer di Cassino, alcuni extracomunitari ubriachi venivano denunciati a Milano per lancio di oggetti da una terrazza panoramica, mentre due giorni dopo — sul tratto bolognese della A14 — alcuni ragazzini sono stati bloccati in flagranza, mentre lanciavano zolle di terra contro le auto in corsa, dai lati dell’autostrada. La numerazione dei cavalcavia ha contribuito moltissimo a difenderci meglio da questo tipo di sconsiderati attacchi, esattamente come l’innalzamento fino a 2 metri delle reti di protezione. Dobbiamo poi rendere il merito ad alcune società autostradali, che hanno incrementato la videosorveglianza sui tratti di propria competenza, ma ci sono troppe strade ancora scoperte. Montare altre telecamere, magari anche finte come deterrente, (anche questa è una proposta Asaps del 1997) è una delle soluzioni ottimali, ma anche questo potrebbe non bastare. La maggior parte degli eventi letali, si è verificata di notte: illuminare le campate dei cavalcavia, attenuerebbe i rischi, perché consentirebbe all’utenza di vedere movimenti sospetti sui sovrappassi e di lanciare immediatamente l’allarme, mentre anche gli eventuali cecchini non potrebbero più contare sul fattore oscurità per arrampicarsi sulle reti e sganciare dall’alto i propri proiettili. Anche l’elevazione delle recinzioni si è dimostrato importantissimo, nell’azione di contrasto: i semplici paracarri sono divenuti da tempo barriere di due metri, che potrebbero divenire davvero invalicabili con l’aggiunta di pannelli spioventi verso l’interno, a bocca di nassa, che potrebbero chiudere quel varco che oggi esiste al termine naturale della recinzione. Ma la soluzione migliore, resta ancora quella meno praticata dell’educazione civica. Mostrare ad una scolaresca le immagini di ciò che accade quando un sasso va a segno, commentando la tipologia delle lesioni inferte dalla pietra contro un corpo in velocità, discutendo sui perché di quei gesti o facendo capire ai discenti che sulle auto bersagliate potrebbero esserci loro o i propri congiunti-amici-fratelli, avrebbe senz’altro la sua importanza. Almeno, avremmo la certezza di aver mostrato cosa è sbagliato.

4. L’evoluzione del processo penale nel giudizio dei colpevoli identificati.

A livello teorico, quando un atto di questo genere viene messo posto in essere, siamo difronte ad un attentato alla sicurezza dei trasporti (articolo 432 del Codice Penale), che può diventare, nei casi peggiori, omicidio (articolo 575 del Codice Penale) o strage (articolo 422 del Codice Penale). Siamo dunque ben lontani dal semplice lancio pericoloso di oggetti, tanto che in condizioni di flagranza il Pubblico Ufficiale potrebbe addirittura fare uso legittimo delle armi (articolo 53 del Codice Penale) qualora il lanciatore non desistesse immediatamente dal proposito, visto che questa conditio sine qua non fa appunto menzione alla consumazione di delitti di strage, di naufragio, di sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. Siamo su un terreno pericoloso, certo, ma così è. Sulla gravità del delitto, del resto, non ci sono nemmeno più dubbi, visto che anche la Corte di Cassazione, con la sentenza 5.436 del 25.01.2005, ha ormai sancito che chiunque effettui un lancio di oggetti verso un veicolo con l’intento di colpirlo, commette il delitto di tentato omicidio, oltre che — come detto — attentato alla sicurezza dei trasporti. Il principio è stato affermato lo scorso 25 gennaio, in occasione della condanna definitiva a 4 anni e 4 mesi di reclusione nei confronti di un 30enne di Alessandria, colpevole di aver lanciato, il 7 luglio 2003, una pietra di 3 chilogrammi da un cavalcavia. Quel gesto, che definire folle sarebbe riduttivo, non ha avuto conseguenze gravi, ma è bastato per convincere i giudici che la volontà era quella di uccidere qualcuno, non importa chi. Simone Marangon, questo il nome del cecchino, venne arrestato poco dopo il lancio proprio sul cavalcavia, dove era tornato per recuperare un paio di occhiali da sole smarriti. Ad inchiodarlo, numerosi testimoni, compresa una propria insegnante: "…il lancio dei sassi da un cavalcavia
seppur non diretto, in ipotesi, a colpire singoli autoveicoli, è idoneo, per la non facile avvisabilità degli oggetti che cadono all’improvviso dall’alto o che comunque siano già giunti al suolo sulla carreggiata mentre i conducenti sono intenti ad osservare le macchine che precedono e seguono e per la consistente velocità tenuta generalmente dai conducenti in autostrada, a creare il concreto pericolo di incidenti stradali,
anche mortali, al cui verificarsi, quindi, sotto il profilo soggettivo, deve intendersi diretta la volontà dell’agente
".
Pur non avendo niente a che fare con la banda della Cavallosa, che uccise il 26 dicembre 1996, più o meno nella stessa zona Maria Letizia Berdini, l’episodio ha riacceso l’attenzione sul fenomeno ed i riflettori della polemica sul destino dei 4 assassini della giovane donna, oggi in carcere per scontare una condanna a 18 anni e 4 mesi di reclusione, con una sentenza della Corte d’Appello di Torino confermata in Cassazione il 4 luglio 2001. Paolo Bertotto, cugino dei fratelli Alessandro, Franco e Paolo Furlan, infatti, potrebbero presto ottenere il permesso di uscire dal carcere di Ivrea, avendo già inoltrato istanza ai magistrati di sorveglianza grazie alla buona condotta. Raggiunti i due terzi della pena, potrebbero lasciare la cella, come già successo per un altro uccisore condannato con sentenza definitiva: parliamo di Riccardo Garbin, uno degli assassino di Monica Zanotti, 25 anni, centrata da una pietra scagliata da un cavalcavia della A22 nei pressi di Bussolengo, la notte del 29 dicembre 1993, mentre stava tornando a casa col proprio fidanzato Davide Perbellini. Il killer, che deve scontare una pena a 15 anni di reclusione, aveva affrontato il processo insieme al complice 15enne, Davide Lugoboni, ed al lanciatore materiale, Marco Meschini, che all’epoca aveva solo 16 anni. Garbin ha convinto i magistrati di essere pentito, e questo gli ha anticipato la libertà, prevista in via definitiva nel 2007.

5. Un fenomeno vetusto e, ormai, globale.

Abbiamo già fatto qualche esempio, e nel sito dell’Asaps sono elencati tutti gli episodi di maggior rilievo riportati dalla cronaca o segnalati dai nostri referenti sparsi sul territorio dello stato. La scelta di gestire un archivio di questo genere, ci ha però convinti dell’antichità — se possiamo definirla così — di questo fenomeno, di cui ci sono tracce fin dai primi anni ’80. La stampa ha fatto risalire al 22 aprile 1986 il primo episodio di lancio killer, avvenuto da un cavalcavia della strada provinciale Milano-Lentate sul Seveso: l’improvvisato proiettile andò a segno su una Fiat 127 in transito sulla corsia sud, in prossimità di via Pastrengo a Varedo, uccidendo sul colpo una bambina di 2 mesi e mezzo, Maria Jlenia Landriani, figlia di Angelo, poliziotto in servizio presso la Questura di Milano, che all’epoca aveva 27 anni, e di Rosa Sodano, 22enne, che la teneva addormentata in braccio. Fu proprio lei a notare un uomo che lanciava la pietra, rimasto senza nome nonostante l’impegno dei Carabinieri di Cesano Maderno e della Polizia. L’episodio suscitò un tale sdegno da indurre un industriale di Merone (Como) a mettere una taglia di 5 milioni sulla testa del vile assassino. Pochi mesi dopo, il 24 novembre 1986, morì Giuseppe Capurso, 40 anni, la cui auto finì fuori strada dopo essere stata centrata da un sasso tirato contro la sua auto da un cavalcavia della A14 nei pressi di Molfetta (Bari). Quell’anno è comunque stato costellato da avvenimenti del genere: il 25 agosto 1986, infatti, un masso di calcestruzzo del peso di 50 kg venne fatto cadere in A1 dal cavalcavia Rimale, nei pressi dello svincolo di Fidenza (Parma). La dinamica di quell’impatto ricorda tristemente quella dell’ultimo episodio mortale avvenuto a Cassino, ma si risolse senza conseguenze gravi per le persone a bordo di 6 auto, che investirono la pietra: le indagini della Stradale di Guardamiglio e dei Carabinieri di Busseto, non portarono a niente. Il primo episodio mortale che è presente nei nostri archivi, però, è da far risalire a venerdì 23 agosto 1984, ed è uno dei più raccapriccianti in assoluto: è notte fonda, e sulla A22 un’auto tedesca viaggia verso il confine di stato, al Brennero. Al volante c’era Christa Walburga, 39 anni, in Italia per turismo. L’auto oltrepassa lo svincolo di Pegognaga, nel mantovano, ma quando passa sotto un cavalcavia il parabrezza viene sfondato da una lama di guardrail fatta cadere dal sovrappasso. La lama, nell’impatto, tiene fede al proprio nome e recide di netto la testa di Christa. La società Autostrada del Brennero non ci sta e presenta esposti per questo ed altri episodi analoghi. Sono lanci killer, e viene individuata la strada dove l’assassino si era approvvigionato, nei pressi di Gonzaga. Indagini serrate portano le manette ai polsi di un 28enne, lo stesso che aveva dato l’allarme per i soccorsi. La sua versione dei fatti non resse, e scattò la misura cautelare. Un gravissimo episodio plurimortale anch’esso sulla Brennero, che porta la data del 13 febbraio 1991, si è rivelato invece un incidente stradale: la Lancia Prisma di una coppia di pensionati, Domenico Fornale, 70 anni, e la moglie Rosa Perena, 69, che stava percorrendo l’A22, venne colpita da una grossa lastra di acciaio che infranse il parabrezza della loro vettura, finita fuoristrada. Nel ribaltamento morirono entrambi,mentre le due figlie vennero ricoverate. Le indagini della Polizia Stradale accertarono che la causa fu una perdita di carico da un camion. Ancora in A14, a Giovinazzo (Bari), la notte del 18 aprile 1993 si verificò un tiro letale. Morì un uomo, di cui non siamo riusciti a recuperare le generalità. Il 31 agosto 1997, non sarà invece dimenticato dal cantante Francesco De Gregori, che mentre percorreva in auto l’A1 attorno Roma, venne colpito da una pietra che sfondò il parabrezza.

Conclusioni

Ci rendiamo conto che l’unico contributo alla nostra portata è il suggerimento. Un argine, se volete, che contribuisca a non far sondare il fiume di questa follia che è la violenza stradale. Il sorriso di Monica Zanotti i di Maria Letizia Berdini, l’impegno paterno di Natale Giuffré, la vita mai sbocciata di Maria Jlenia Landriani e di decine di altre vittime, ci impongono di non chiudere un dossier alla voce ignoti. Per l’omicidio non c’è prescrizione, e questo se vale per la legge scritta che ci siamo dati, deve valere anche per la missione alla quale puntiamo: un’aspettativa di vita accettabile, sempre, e non solo al momento dell’emozione.

Ha collaborato Giordano Biserni



Di Lorenzo Borselli

Lancio sassi – Inchiesta Asaps
Lunedì, 06 Marzo 2006
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