LA GESTIONE DELLO STRESS OPERATIVO NELLE FORZE DI POLIZIA:
Neuroscienze e resilienza tra protocolli innovativi e modelli internazionali a confronto
di Cristiano Curti Giardina
La gestione dello stress operativo rappresenta una sfida cruciale per le forze di polizia contemporanee. Ogni intervento, dall’ordinario controllo su strada alle situazioni ad alto rischio, espone gli operatori a condizioni di forte pressione psicologica e fisica, nelle quali il tempo per decidere è ridotto, le variabili sono molteplici e l’errore può avere conseguenze gravi non solo sul piano immediatamente operativo, ma anche su quello disciplinare, giuridico, mediatico e psicologico. In questo senso, lo stress operativo non è più un elemento secondario della professione, ma una variabile strategica che condiziona sicurezza, efficacia e legittimazione sociale delle forze di polizia.
Le neuroscienze hanno contribuito in maniera determinante a chiarire i meccanismi attraverso i quali lo stress influenza la performance. Gli studi di Daniel Kahneman hanno evidenziato la distinzione tra pensiero veloce e pensiero lento: il primo, automatico e intuitivo, permette di reagire rapidamente, ma è vulnerabile a bias e distorsioni; il secondo, più riflessivo e analitico, garantisce valutazioni accurate ma richiede tempo e risorse cognitive. Joseph LeDoux ha mostrato come, in condizioni di pericolo percepito, l’amigdala – centro nevralgico della risposta emotiva – possa prevalere sulla corteccia prefrontale, determinando reazioni impulsive di attacco o fuga. A questo si collega il cosiddetto Daanen Effect, che descrive il passaggio da una condotta goal-directed a una stimulus-driven: in pratica, l’operatore smette di ragionare in termini di obiettivi e strategie e si lascia guidare esclusivamente dagli stimoli percepiti come minacciosi.
Le conseguenze sulle scelte operative sono evidenti e possono avere un impatto di vasta portata. Un poliziotto che sperimenta visione a tunnel o perdita della consapevolezza situazionale rischia di concentrarsi esclusivamente su un dettaglio irrilevante, trascurando elementi decisivi per la corretta valutazione della scena. Una scelta sproporzionata, dettata dall’impulso più che da un’analisi razionale, può tradursi in un uso eccessivo della forza o in una reazione inadeguata al livello di minaccia. Questo non si esaurisce nell’immediato, ma genera una catena di conseguenze: sul piano disciplinare, con l’avvio di procedimenti interni; sul piano giuridico, con la possibilità di contestazioni penali o civili per abuso o eccesso colposo; sul piano mediatico, con l’amplificazione dell’errore e la sua trasformazione in “caso” capace di influenzare l’opinione pubblica; sul piano psicologico, con il rischio di traumi, sensi di colpa o reazioni post-traumatiche per l’operatore stesso.
Inoltre, errori percepiti come frutto di scelte irrazionali intaccano la fiducia della cittadinanza nelle istituzioni, minando il patto fiduciario che lega polizia e società. Non a caso, i dati del report ASAPS “Sbirri Pikkiati” confermano una crescita costante delle aggressioni contro gli operatori, a testimonianza di quanto la gestione dello stress e la capacità di mantenere autocontrollo siano oggi competenze operative decisive. In questo senso, i processi neurofisiologici che avvengono in frazioni di secondo non riguardano solo la sfera individuale, ma hanno implicazioni dirette sulla credibilità dell’intera organizzazione di polizia. È per questo che la formazione avanzata deve includere non solo l’addestramento tecnico, ma anche l’allenamento a riconoscere e governare le reazioni neurofisiologiche, così da prevenire errori che si traducono in conseguenze operative, disciplinari, giuridiche e sociali di grande rilevanza.
A queste dinamiche si aggiungono gli effetti psicofisiologici dello stress acuto: tachicardia, iperventilazione, visione a tunnel, distorsione temporale, alterazioni percettive e deficit mnestici. Studi internazionali hanno evidenziato che in scenari simulati la frequenza cardiaca degli operatori può raggiungere livelli pari a quelli di un’attività sportiva massimale, pur in assenza di sforzo muscolare significativo, compromettendo così la motricità fine e la precisione operativa. L’iperventilazione determina ipocapnia e ridotto apporto di ossigeno al cervello, con conseguente rallentamento cognitivo e maggiore rischio di decisioni impulsive. Non meno rilevante è l’impatto cumulativo dello stress cronico e della privazione di sonno, che abbassano le capacità di resilienza e incrementano il rischio di burnout, disturbi d’ansia e depressione, fino a manifestazioni estreme come il suicidio, che in diversi Paesi rappresenta una delle principali cause di mortalità tra gli operatori di polizia.
Per fronteggiare tali dinamiche non è sufficiente ripetere le procedure tecniche apprese in addestramento. È necessario un cambio di paradigma, che sposti la formazione da un approccio monodimensionale a uno multidimensionale, integrando elementi psicologici, cognitivi e neurofisiologici. Un modello di riferimento è rappresentato dallo Stress Inoculation Training (SIT), elaborato da Donald Meichenbaum e progressivamente adattato al contesto militare e di polizia. L’idea di fondo è analoga a quella dell’immunizzazione: esporre gradualmente gli operatori a stimoli stressanti in un ambiente controllato, così da sviluppare resilienza, strategie di coping e capacità di mantenere lucidità in condizioni reali.
Un’evoluzione significativa di questo modello è rappresentata dai programmi più recenti che integrano neuroscienze, didattica esperienziale e simulazioni ad alta fedeltà, con l’obiettivo di trasformare lo stress da vulnerabilità a risorsa operativa. L’elemento distintivo consiste nell’utilizzo di scenari complessi, con role player che interpretano soggetti collaborativi, ostili o ambigui, capaci di generare variabili imprevedibili e pressioni cognitive simili a quelle reali. La componente centrale è il debriefing, momento in cui l’esperienza vissuta viene analizzata, rielaborata e trasformata in apprendimento operativo. In questo modo l’errore non rimane un fallimento, ma diventa una traccia mnestica funzionale, richiamabile in situazioni analoghe.
Parallelamente, altri strumenti hanno mostrato grande efficacia nel potenziamento della resilienza psicofisiologica. La respirazione controllata, nelle sue diverse varianti (respirazione diaframmatica, box breathing, tactical breathing), consente di stabilizzare il battito cardiaco, contrastare l’iperventilazione e mantenere la coerenza cardiorespiratoria, con effetti positivi sulla lucidità cognitiva. Il biofeedback permette invece di visualizzare in tempo reale le proprie risposte fisiologiche – frequenza cardiaca, conduttanza cutanea, tensione muscolare – e imparare a modularle intenzionalmente. Queste tecniche, combinate con la pratica deliberata teorizzata da Anders Ericsson, che prevede esercitazioni mirate e progressive con feedback immediato, rafforzano la capacità degli operatori di mantenere controllo e coerenza decisionale anche in contesti critici.
Elemento fondamentale riguarda la de-escalation, ormai riconosciuta a livello internazionale come competenza operativa essenziale. Essa implica l’uso consapevole della comunicazione verbale e non verbale, della postura, del tono di voce e della gestione delle distanze, al fine di ridurre la tensione, prevenire l’escalation fisica e proteggere la sicurezza di tutti gli attori coinvolti. Non si tratta di una mera tecnica relazionale, ma di una strategia operativa che consente di limitare l’uso della forza, ridurre i contenziosi legali e rafforzare la fiducia della cittadinanza verso le istituzioni.
Le esperienze internazionali offrono numerosi esempi di applicazione di questi approcci. Negli Stati Uniti, in seguito a episodi di uso eccessivo della forza e alle conseguenti pressioni mediatiche e giudiziarie, diverse agenzie hanno introdotto protocolli innovativi, come la cognitive interview per migliorare l’accuratezza della memoria degli eventi critici e i periodi di decompressione prima della stesura dei rapporti ufficiali. Il Regno Unito ha investito in nuovi modelli di turnazione e in programmi educativi sul sonno, con effetti positivi sulla riduzione degli errori operativi. In Canada, l’integrazione del biofeedback nei programmi di addestramento ha portato a una significativa riduzione dei sintomi post-traumatici e a un miglioramento delle performance. Israele, forte di una tradizione consolidata nella gestione di scenari ad alta intensità, ha sviluppato protocolli avanzati di resilienza psicologica, basati su simulazioni immersive e pratiche di debriefing collettivo. La Finlandia ha integrato neuroscienze e de-escalation nella formazione di base degli agenti, mentre l’India ha recentemente avviato programmi di cooperazione internazionale per introdurre moduli di SIT e tecniche di respirazione controllata nelle proprie accademie.
Il confronto con queste esperienze evidenzia come la formazione avanzata non sia un lusso opzionale, ma una necessità strategica. L’Italia, pur avendo intrapreso percorsi di aggiornamento, mostra ancora margini di miglioramento nell’integrazione sistematica di neuroscienze, psicologia e tecniche innovative nei programmi di formazione. L’adozione di modelli come il SIT, il potenziamento delle competenze di de-escalation, la diffusione del biofeedback e l’attenzione alla salute mentale degli operatori potrebbero contribuire a ridurre il rischio di errori operativi, migliorare la qualità degli interventi e rafforzare la fiducia tra cittadini e istituzioni.
In conclusione, la gestione dello stress operativo costituisce oggi una priorità non solo per la sicurezza degli operatori, ma per la stessa qualità della sicurezza pubblica. Formare professionisti capaci di riconoscere e governare le proprie reazioni fisiologiche ed emotive significa tutelare la loro salute psicologica, ridurre il rischio di burnout e disturbi post-traumatici, migliorare l’efficacia delle operazioni e garantire una maggiore legittimazione sociale delle forze di polizia. Neuroscienze e esperienze internazionali indicano chiaramente la direzione: lo stress non va negato né semplicemente subito, ma allenato, compreso e trasformato in una risorsa operativa. Preparare l’uomo prima ancora che l’operatore è la chiave per una polizia contemporanea efficace, responsabile e pienamente al servizio della collettività.
Dal libro: LA GESTIONE DELLO STRESS OPERATIVO NELLE FORZE DI POLIZIA
Neuroscienze e resilienza tra protocolli innovativi e modelli internazionali a confronto
di Cristiano Curti Giardina

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