Venerdì 21 Marzo 2025
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di Lorenzo Borselli*
Quando il Pubblico Ufficiale viene indagato per aver fatto il suo lavoro…
“Atto dovuto!”, ma de’ che? Proviamo a fare chiarezza sulla polemica delle ultime settimane  

L'episodio del 31 dicembre 2024 a Villa Verucchio - Foto dal web

Le ultime settimane sono state molto difficili per le forze dell’ordine, e non è affatto semplice raccontarle: il Carabiniere che spara e uccide un accoltellatore, che di persone ne aveva già colpite quattro (ferendole), e che adesso è indagato per eccesso colposo ed un secondo militare che ingaggia un inseguimento con uno scooter alla periferia di Milano, che si conclude con un altro morto. Mica è finita però, perché da Rimini e Milano si va a sud, nel ragusano, a Vittoria, dove due ragazzini in sella a uno scooter scappano all’alt della Polizia e nell’inseguimento che ne è scaturito sono finiti contro un’auto, finendo uno in rianimazione e l’altro in ortopedia col femore rotto. La polemica impazza, puntuale e pretestuosa, perché lontana dai fatti e, soprattutto, dall’accertamento di cosa sia effettivamente avvenuto nei rispettivi scenari operativi.

Stabilirlo è imperativo e chi dice il contrario o ha poca dimestichezza con la legge o è in malafede, almeno secondo il nostro punto di vista; ma, soprattutto, fa crescere l’odio tra le parti.
Perché conoscere la verità serve o, almeno, dovrebbe servire a tenere saldo il rapporto tra Stato e Cittadinanza, cosa che invece sembra ormai essere saltata a vantaggio di un clima di delegittimazione e di acredine.
Di più: serve a dimostrare che non c’è alcun imbarazzo, favoritismo o pregiudizio nel lavoro di indagine, anche se poi il video di una dashcam finisce in tv e non sul tavolo del magistrato. Se le verifiche o le indagini che riguardano l’operato – e le dirette conseguenze – di chi è chiamato a difendere la Legge non fossero serie e imparziali, verrebbe meno la fiducia negli stessi e da quel momento in poi il banco salterebbe, come nei fatti è già accaduto, purtroppo, da tempo.
La colpa?
Delle polemiche, certo, ma anche dei depistaggi, e qui si apre la parte più complessa e difficile: accertare se corrisponda al vero che due colleghi dei carabinieri coinvolti nell’inseguimento abbiano cancellato (o fatto cancellare) il video delle fasi finali dell’operazione è essenziale e se le consulenze informatiche disposte dalla Procura di Milano – che al momento sembra aver riconosciuto la legittimità del comportamento operativo fino all’impatto – consentiranno il recupero di quel frame potranno al più inguaiare i militari che in questo caso avrebbero agito illegittimamente, ma solo con riguardo all’inquinamento probatorio e non al fatto in sé.
Ma ce lo diranno i periti. Ricordiamo, infatti, che cancellare un file da una memoria informatica di un dispositivo (e anche dal cestino, dove si trovano quelli eliminati) non basta: per farlo sparire del tutto bisogna che la memoria dell’apparato si sovrascriva.

Si tratta però di un’altra questione, che attiene al “depistaggio”, su cui bisognerebbe dedicare un capitolo a parte proprio nella formazione dei nostri ranghi: nelle scuole o nelle accademie si insegna molta teoria, ma dell’interazione con la “fonte di prova” e con chi assume la direzione delle indagini, il Pubblico Ministero cioè, si dice davvero poco, almeno per gli agenti di polizia.
Veniamo al punto.
I fatti che a Rimini vedono coinvolti il maresciallo e il cittadino egiziano che, nella notte di Capodanno, si è messo ad accoltellare la gente in strada a casaccio, sembrano essere – almeno a prima vista – estremamente chiari e il nostro collega dovrebbe essere presto scagionato.
Certamente, quell’atto dovuto che vede un valoroso uomo dello Stato finire nel registro degli indagati, è una contingenza che apparentemente stride con la cristallinità degli eventi, per come ci sono stati riportati dalla cronaca, ma assai più stridente, sempre secondo noi, è la circostanza che un Carabiniere (o un Poliziotto, un Finanziere, un qualsiasi operatore delle Forze dell’ordine, ma anche un Medico, un Infermiere o un Vigile del Fuoco) debba sostenere da solo le spese di un avvocato e dei consulenti che si alterneranno nell’opera di ricostruzione della verità, partendo proprio dall’assunto che tutti sono innocenti fino a prova contraria.

L’articolo 72 comma 2 della Costituzione recita testualmente che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”: quindi, più che pretendere l’impunità o il giudizio speciale di una sorta di “giurì” (pretesa anche questa che ci sembra incostituzionale), ci sembra più opportuno che lo Stato debba farsi carico delle spese sostenute dai propri dipendenti finiti alla sbarra in ragione del proprio incarico operativo, salvo poi, in caso di condanna, attivarsi per il loro recupero.
Cosa difficile, anche questa, perché già stabilire un novero di dipendenti della P.A. ai quali fornire assistenza o sostentamento legale sarebbe di per sé un bel problema e senza contare, poi, che anche il privato cittadino indagato per legittima difesa sarebbe più o meno nelle stesse condizioni: se giudicato innocente avrà sostenuto spese considerevoli per dimostrarlo, ma al suo portafoglio chi ci pensa?
Ben diversa, purtroppo, la situazione dei colleghi di Milano coinvolti nell’inseguimento dello scooter, finito tragicamente: in quel caso abbiamo sì una condotta illecita da parte dei fuggitivi, ma niente si sa oggi né tantomeno potevano saperlo i carabinieri al momento dell’ingaggio, del perché i due siano scappati.
Avevano commesso un reato? O sono fuggiti per paura di prendere una multa?
Perché la cronaca, più o meno di parte, questi interrogativi li pone e anche se i processi mediatici hanno già emesso le proprie sentenze, con dibattiti spesso surreali, alla sbarra ci andranno operatori dello Stato che erano in servizio per difendere la collettività e, quindi, la verità deve essere ricostruita puntualmente. L’uccisione del giovane in fuga, però, pone per l’ennesima volta anche altre questioni, sia di carattere tecnico-giuridico che di carattere tecnico-operativo.

Il primo aspetto lo solleva l’ex capo della Polizia Franco Gabrielli, oggi consulente della sicurezza al comune di Milano, il quale, in un’intervista a Radio24 a commento dei fatti, aveva stigmatizzato le modalità operative adottate nel corso dell’inseguimento, spiegando che, a suo parere, non si può mettere a rischio l’incolumità di chi sta scappando, secondo un principio fondamentale “di proporzionalità delle azioni che devono essere messe in campo per ottenere un determinato risultato: io posso addirittura utilizzare un’arma se è in pericolo una vita, ma se il tema è fermare una persona che sta scappando, non posso metterla in una condizione di pericolo. Questo è un elementare principio di civiltà giuridica”.

Il secondo origina proprio da questa opinione: cos’è, operativamente parlando, un inseguimento? Perché, per stabilire a posteriori la proporzionalità dell’azione, una cosa è ingaggiarlo quando chi sia coinvolto abbia evidentemente commesso un reato e, quindi, l’inseguitore lo sa, ma altra cosa è farlo se uno non si ferma.
Bisogna che qualcuno, questa non trascurabile cosa, ce la dica una volta per tutte perché o si fanno scappare tutti o non si fa scappare nessuno e, sia chiaro, noi siamo per questa ultima condizione. La legge corre in nostro aiuto con il combinato disposto di due norme: l’articolo 55 del codice di procedura penale (Funzioni della Polizia Giudiziaria) e l’articolo 177 del codice della strada (Circolazione degli autoveicoli e dei motoveicoli adibiti a servizi di polizia o antincendio, di protezione civile e delle autoambulanze).
L’articolo 55 cpp spiega, in maniera icastica, quali siano i doveri di un agente o di un ufficiale di polizia giudiziaria nel corso della propria attività operativa: “deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale”. “Deve”, non “può”:
L’articolo 177 comma 2 CDS, invece, si occupa di precisare come debba essere condotto un veicolo dotato di lampeggiante e sirena (dispositivi di segnalazione visivi a luce blu ed acustici) nel corso di servizi urgenti d’istituto. L’inseguimento è, con tutta evidenza, uno di questi servizi.

Ebbene, “i conducenti dei veicoli di cui al comma 1– recita l’articolo –, nell’espletamento di servizi urgenti di istituto, qualora usino congiuntamente il dispositivo acustico supplementare di allarme e quello di segnalazione visiva a luce lampeggiante blu, non sono tenuti a osservare gli obblighi, i divieti e le limitazioni relativi alla circolazione, le prescrizioni della segnaletica stradale e le norme di comportamento in genere, ad eccezione delle segnalazioni degli agenti del traffico e nel rispetto comunque delle regole di comune prudenza e diligenza".

Quando si parla delle regole di comune prudenza e diligenza, ci si riferisce a quelle che il Codice civile definisce, con un linguaggio un ormai antico ma efficace, “del buon padre di famiglia”, che noi potremmo empiricamente convertire in una forma più semplice: un veicolo in sirena può ragionevolmente dirsi alienato dalla realtà oggettiva del traffico. Può percorrere tratti contromano, può svoltare dove è vietato, sorpassare dove non si può, passare col rosso o bucare uno stop: nessuno, se commetti queste infrazioni senza conseguenze, potrà farti la multa, ma se l’incidente accade, ecco che il grado di perizia, prudenza e diligenza con cui hai guidato sarà vagliato – come è giusto che sia – da qualcuno in grado di determinarne la correttezza e stabilire, invece, se invece, siano state prevalenti imperizia, imprudenza e negligenza.
È vero, è un lavoro difficile, ma proprio per questo è necessario che qualcuno ci tolga dal limbo del giudizio ex post su ogni cosa che facciamo.

In alcuni dibattiti televisivi, anche surreali (ma solo per il nostro grado di conoscenza della materia rispetto all’assoluta ignoranza dimostrata da chi era in studio a parlarne in termini ideologici diametralmente opposti), abbiamo sentito tirare in ballo, in chiave di confronto, l’uccisione, sempre nel milanese, di Anis Amri, il terrorista di Berlino.
I colleghi che lo fermarono, per un controllo di routine, lo trovarono a piedi, in piena notte. Lui estrasse l’arma e sparò ma i nostri colleghi, tra cui il compianto Luca Scatà, scomparso per malattia, risposero al fuoco e lo uccisero.


Lo scooter su cui viaggiava Rami Elgaml, uno Yamaha Tmax, è stato inseguito per più di 8 chilometri, tutti ritenuti – almeno per il momento – correttamente percorsi dalle gazzelle e dalle pantere di Carabinieri e Polizia. Rami e il suo compagno di fuga, come Anis Amri, erano oggetto di un controllo casuale.
In eventi come questo c’è l’innesco dato dalla fuga di una o più persone, che mettono l’operatore di polizia nella condizione di dover decidere istantaneamente se inseguire o annotarsi la targa (operazione questa che è spesso impossibile, perché leggere e trascrivere la matricola di un veicolo ad alta velocità è davvero un’impresa complicata), se adempiere cioè ai doveri del proprio ufficio o desistere.

Se qualcuno ci fornisse un protocollo operativo, beh, almeno sapremmo cosa fare, ma diventa difficile anche solo pensare a come potrebbe essere redatto: la legge impone l’inseguimento e nulla distingue, in termini di procedura penale, circa la proporzionalità dell’agire, perché nemmeno si conosce l’esistenza di un eventuale reato presupposto.
Ci sono “maranza” che pubblicano decine di video, proprio nel milanese, in cui si fanno beffe di polizia e carabinieri, che li provocano e che poi scappano, con motorini e bici elettriche e, a proposito, se vi capita andate a leggere il tenore dei commenti. Ma la fuga nella notte in cui Rami è morto diceva qualcosa di più: chi sfreccia a 150 e passa in città, che non si ferma, in genere ha commesso qualcosa di grave ed è pronto a mettere la propria vita a rischio pur di non farsi prendere dai Carabinieri.
E loro sì che possono correre, perché il dovere giuridico di esporsi è insito nella funzione attribuita: ci si abitua, anche alle alte velocità in auto e in moto, ci si prepara (o dovremmo farlo) e in loro aiuto ci sono strumenti giuridici, come il codice di procedura penale o della strada, e quelli pratici, come i lampeggianti e le sirene e l’addestramento.
Ma indagare, iscriverci sui registri delle notizie di reato, sarà sempre necessario, perché una parola “terza”, autonoma, qualificata e indipendente, deve per forza arrivare.

Che sia rapida e gratis per le forze dell’ordine, almeno fino a innocenza confermata, è un lavoro della politica che aspettiamo da anni.
Il rapporto tra cittadino e Stato, secondo noi, lo possiamo tenere saldo solo così, ma non facciamoci illusioni: si ricorderanno per sempre di Rami, ma chi siano Mario Cerciello Rega, Stefano Biondi o Pasquale Apicella, state sicuri, non se lo ricorda nessuno.

*Ispettore della Polizia di Stato,
responsabile della comunicazione di ASAPS



 

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da il Centuaro n. 272


Un interessante articolo su un tema di estrema attualità. Dí Lorenzo Borselli Ispettore della Polizia di Stato e responsabile comunicazione di ASAPS

 

 

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Venerdì, 28 Febbraio 2025
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