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Articoli 01/06/2023

di Lorenzo Borselli*
72 ore di sangue, 43 morti, un numero imprecisato di feriti: un tranquillo weekend di paura. Nessuno ne parla: amnesia permanente o negazione della realtà?

 

(ASAPS) Forlì, 1° giugno 2023 – Quando si scrive un pezzo giornalistico di commento a qualcosa, se non si è Montanelli o Bocca, bisogna partire dalla notizia, cercare di spiegarla e sintetizzare un pensiero che possa fungere da conclusione.
Bene, la notizia è questa: nell’ultimo weekend del quinto mese del 2023 (26-28 maggio)  l’Osservatorio ASAPS ha registrato 43 decessi sulle strade: 24 motociclisti, 13 automobilisti, 3 pedoni e altrettanti ciclisti. 72 ore di sangue, di terrore e di dolore, di sequestri e burocrazie, di processi che si aprono, di funerali che si preparano; di cordelle che segnano i punti a terra, di carroattrezzi che issano carcasse grondanti oli esausti, di scope che spazzano detriti dall’asfalto. E ancora di ambulanze che rientrano silenziose, di campanelli che suonano e di gente in divisa che ti entra in casa al posto di qualcuno che invece non lo farà più.
Un articoletto di stampa, sempre più scarno, e via che si ricomincia.
La retorica fa sempre il suo effetto, bisogna ammetterlo.

Proviamo a sviluppare un pensiero, perché uno dei fine settimana più tremendi che ricordiamo è appena trascorso: il dato che emerge, per quanto ignorato dalla stampa e (quindi) dalla politica, è che la categoria più colpita dalla mattanza è quella dei motociclisti (categoria che qui comprende tutti quelli in sella a un veicolo a motore  a due ruote).
Ora: prima che a qualcuno venga in mente di suggerirci di denunciare il gravissimo stato in cui versano le nostre infrastrutture, prima che ad altri sovvenga il pensiero di rammentarci che la colpa è soprattutto di conducenti distratti, di vecchietti lenti, di animali vaganti o perfino della sfavorevole congiunzione degli astri, suggeriamo di andare a consultare il nostro sito internet, perché è da un trentennio che parliamo anche e soprattutto di quello.
Ma (sottolineiamo l’uso della predetta congiunzione avversativa) il dato di fatto alla luce degli ultimi dati è semplice: quando il motociclista va a sbattere si fa male per forza e non bisogna aver vinto un Nobel in fisica o medicina per capire che maggiore è la velocità, maggiori sono le conseguenze alle quali il malcapitato andrà incontro. Pensate che gli studi delle lesioni indicano chiaramente che la velocità d’impatto di 30 km/h risulta essere il valore di soglia oltre la quale la lesività aumenta bruscamente: non è un caso che nelle città si stiano moltiplicando le zone in cui tale limite sia imposto per legge.
Quindi, potremo parlare ore e usare fiumi d’inchiostro per passare in rassegna tutte le concause, ma su due cose non è possibile essere smentiti.
Anzi, tre:
in primis, la velocità è un problema insito nella moto-conduzione, al pari della maggiore lesività a cui vanno incontro i centauri. Si va più veloce degli altri veicoli per definizione: lo fa lo scooterista più imbranato, che supera la fila al semaforo, figuriamoci il biker esperto. Fidatevi: c’è gente (per fortuna pochissimi) che spesso tocca i 250 sui rettilinei della Futa, del Giau o di qualsiasi altro itinerario. Ma proprio per l’esposizione che il corpo umano ha quando si trova in sella, spostarsi in moto è molto più pericoloso rispetto agli altri mezzi su ruote: negli stati dell’UE i veicoli a due ruote (motocicli e ciclomotori) rappresentano il 14% delle immatricolazioni e il 17% di tutti gli incidenti mortali ne vede coinvolto uno(1).

In secundis, quei 24 motocilisti morti costeranno alla società oltre 43 milioni di euro, nella più ottimistica delle previsioni, ed è il solo costo dei centauri che hanno perso la vita. A quelli vanno aggiunti i danni sociali per i feriti, sul cui numero non abbiamo al momento indicazioni. Sappiamo però che per ogni ferito grave la collettività paga mezzo milione di euro, mentre per i feriti lievi circa 45mila(2). E sappiamo anche che, statisticamente, per ogni morto ci sono almeno 20 feriti, di varia gravità(3), senza pensare poi al dolore per chi resta o per chi è chiamato ad assistere i superstiti. Quindi, fate voi i conti.

In tertiis, l’impunità. Dobbiamo essere sinceri: le strade non sono controllate, non lo sono più. Autostrade a parte, dove una convenzione tra società concessionarie e Ministero dell’Interno impone una presenza h24, tutte le arterie extraurbane sono lasciate alla vigilanza sporadica dei Carabinieri quando va bene, perché spesso sono alle prese con innumerevoli altri interventi, e delle Polizie Locali, quest’ultime quasi mai in servizio notturno al di fuori dei grossi centri, che rilevano intanto oltre il 60% degli incidenti. Resiste anche qualche sporadica pattuglia della Polizia Stradale, ma ci sono reparti territoriali che difficilmente superano i dieci effettivi d’organico e temiamo sia questione di quattro o cinque anni prima che vengano quasi tutti chiusi. E in termini di repressione, sappiamo ormai che le postazioni fisse che qualche anno fa erano state dislocate sulle statali e sulle provinciali sono quasi tutte inattive e anche se funzionano la percezione circa la loro utilità è più quella di un costoso pedaggio più che la sanzione corrispondente a un precetto violato.
Badate che non è solo un problema di sicurezza stradale: è un problema di sicurezza tout-court, perché quando un territorio non viene presidiato aumentano i reati e, soprattutto, la percezione di non avere tutela.

Dunque, abbiamo più di un problema: di consapevolezza, che attiene incredibilmente ad una sorta di negazione, e di incapacità di reagire e questo pone noi tecnici e studiosi del fenomeno infortunistico (in quota ovviamente “law enforcement”) in un profondo stato di frustrazione.
È come essere a bordo di una barca e vedere la gente che annega tutt’attorno, senza poter far niente: te ne stai lì e puoi solo gridare di non gettarsi in acqua.
Ma nessuno ti ascolta e ogni tanto qualcuno cade. O si butta.
La “negazione” di questo fenomeno consiste appunto nel non parlarne. Senza tirare in ballo Sigmund Freud, che descrisse la “negazione” per primo in chiave isterica e individuale, ci viene da pensare che essendo nel caso di nostro interesse un fenomeno collettivo, il solo fatto di ignorare una così estesa e costante violenza stradale è per definizione complicità. Ma sì: non ne parliamo e quindi non abbiamo nessun problema.
È un incidente”, “può capitare”..., oppure è colpa dell’auto pirata, o della strada che invita alla velocità, della moto potente, dell’alcolemia o della droga.
L’associazione Lorenzo Guarnieri ha da poco pubblicato un bellissimo libro che affronta appunto l’uso che si fa del linguaggio quando si parla di una morte sulla strada: c’è la strada killer, l’auto che perde il controllo, il tir impazzito, la moto assassina. Quasi mai l’eziologia di un evento è ascritta anche solo in forma d’accenno al comportamento del conducente: paura delle querele o negazione dell’evidenza?
Tutto questo insieme di processi sbagliati non può portare al conseguimento degli obiettivi attesi e la risposta scontata alla domanda retorica è la seguente: non può esserci strategia se non abbiamo chiaro lo scopo.
L’obiettivo è diminuire il numero di morti e feriti sulle strade? Ok: genericamente, dunque, dovremmo investigare il fenomeno ma nessuno lo fa.
All’ISTAT elaborano insieme ad ACI i numeri, ma quando arrivano sui tavoli degli analisti sono già freddi, inermi, vecchi e soprattutto non sempre aderenti alla realtà (come quelli connessi con l’abuso di alcolici).
Ciò dipende da chi i numeri li dovrebbe dare, vale a dire le polizie che, come ben sappiamo, non riescono o non vogliono farlo: sono scoordinate tra loro e parlano linguaggi diversi.
Non sappiamo quanta gente ubriaca o drogata provochi incidenti, non sappiamo nemmeno come fare ad accertare l’uso di sostanze stupefacenti da parte di un conducente se ci troviamo ad operare fuori di un dispositivo di controllo specifico, figuriamoci pianificare una strategia nazionale di contrasto…
Quindi, non è solo un problema di motociclisti, che l’ultimo nostro bollettino dimostra essere la principale emergenza: la violenza stradale è un fenomeno “pandemico” del nostro Paese e non stiamo facendo niente per contrastarlo.
I proclami politici, che parlano di ennesimo nuovo codice della strada, di leggi più dure, di misure stringenti, sono destinati a rimanere lettera morta se gli agenti non tornano a pattugliare e ad alzare palette su chi si fa beffe delle regole che ci siamo dati.
Fidatevi, il codice della strada così com’è va benissimo, ma se non c’è nessuno che lo fa rispettare sul posto, non serve a niente.
E che non ci veniate a dire che è un problema di coperture economiche: col risparmio dei costi sociali di un paio di fine settimana ci finanzieremmo un anno di pattuglie. (ASAPS)

(*) Ispettore della Polizia di Stato, responsabile nazionale per la comunicazione ASAPS

 

Bibliografia e fonti
1- “Motorcyclist injury risk as a function of real-life crash speed and other contributing factors”,
Accident Analysis & Prevention, Volume 123, 02/2019, Pagg. 374-386, Chengkai Ding, Matteo Rizzi, Johan Strandroth, Ulrich Sander, Nils Lubbe.
2 -
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti - Direzione Generale per la Sicurezza Stradale e l’Autotrasporto -  “Metodologia per il calcolo del costo sociale degli incidenti stradali”, allegato A, pag. 19. Tav. 4.
3 - “Analisi della lesività e dei meccanismi di causa negli incidenti stradali auto-moto in ambito urbano”,
S. Piantini, M. Pierini, N., Baldanzini - Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Ingegneria Industriale. 2016.

 


Torna Lorenzo Borselli con un suo articolo sul recente week end di sangue sulle strade, con 43 vittime di cui 24 motociclisti. Un pezzo che dovrebbero leggere tutti quelli a cui sta a cuore la sicurezza sulle strade. (ASAPS)

 

 

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Giovedì, 01 Giugno 2023
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