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Articoli 06/08/2003

Storia vera: Salvato in guerra da un milite della Polizia Stradale P.A.I.

Storia vera:
Salvato in guerra
da un milite
della Polizia Stradale P.A.I.

Che cosa si poteva ancora sperare? Gli Americani, con migliaia di mezzi corazzati avanzavano. Noi potevamo opporre soltanto il coraggio. Nel frattempo gli Inglesi, battuti a Maret, tentarono un passaggio attraverso i Laghi Amari (Chott El Djemd). I nostri ricognitori non se ne accorsero, ritenendo il passaggio impossibile in quella stagione, e quando la colonna venne scoperta, era troppo tardi. Il nostro Comando cercò in tutti i modi di contenere l’avanzata, ma tutto fu inutile, nonostante l’estremo impegno delle batterie del Colonnello Devoto. Per toglierci la spina che ci aveva colpito al fianco, la Divisione Centauro dovette abbandonare Gafsa. La notte tra il 18 e il 19 marzo 1943, una nostra piccola colonna, composta da tre Colonnelli, con due Carristi del 13° Battaglione Assaltatori e due arabi, venne intercettata e distrutta a pochi chilometri dal nostro osservatorio Optique, a quota 1181 sul Djebel-Orbata. Quella notte stessa venne attaccato anche l’osservatorio. Il plotone che lo difendeva si comportò con onore. Gli attaccanti americani ci lasciarono un loro compagno caduto e due feriti che calzavano dei mocassini, in uso agli indiani d’America. I due feriti furono subito inviati all’infermeria per essere curati. Il 20 marzo, alle prime luci dell’alba, il villaggio Cabilla di Bu-Harman venne a trovarsi sotto il fuoco dei cannoni della 5° Armata americana del Generale Clark. Dovevamo concentrarci nella valle per la difesa della punta sud del Djebel-Orbata. Dovevamo resistere ad ogni costo, in modo che i carri e le autoblinde americane non oltrepassassero la punta della stretta di El-Ank, aggirando la linea di El-Guettar e tutta la divisione Centauro, con i capisaldi sette, otto e nove tenuti da Carristi, reduci delle disciolte Divisioni Ariete e Littorio.

Avanzavamo a sbalzi, sotto il tiro dei cannoni statunitensi. In quell’istante passarono sopra le nostre teste alcuni Stukas e picchiarono a non meno di duecento metri. Vidi le bombe mentre cadevano, e subito si udirono gli scoppi. Colonne di fumo nero salirono al cielo. Il nostro caposaldo tenne bene grazie al coraggio e all’audacia del Comandante Capitano De Toma. Perdemmo alcuni dei nostri e il giorno dopo fummo citati nel bollettino di guerra. Passai la notte con alcuni compagni dietro a un grosso masso di pietra. Faceva freddo, c’era anche l’umidità che penetrava nelle ossa, come nelle giornate invernali e nebbiose della Valle Padana. Alle prime luci dell’alba, gli Americani intensificarono il fuoco battendo costantemente le nostre postazioni. Una maledetta scheggia di granata mi ferì la mano sinistra. All’infermeria mi visitarono: avevo anche 39 di febbre. Sentii il medico dire all’infermiere che era meglio trasferirmi all’ospedale perché lì non c’erano le cure adatte. Salii su una Jeep (bottino americano), durante il tragitto fummo sempre sotto il tiro dell’artiglieria nemica. Al bivio della rotabile Gabes-Gafsa, al 133° chilometro, mi scaricarono dicendo: "noi dobbiamo tornare indietro. Passerà qualcuno che ti caricherà e ti porterà all’ospedale". E lì rimasi, appoggiato con la schiena a un paracarro, mentre lì vicino si stava svolgendo la disperata lotta di circa 30 carri armati italiani del Maggiore Clementi contro circa 200 carri pesanti americani. La sera il 20° gruppo da combattimento Centauro, dopo valorosa lotta, era annientato. Dopo la battaglia di El-Guettar, la Divisione Centauro venne sciolta e, così, addio Armata Corazzata Italiana. Ora quel tremendo sospetto che ci accompagnava da El Alamein si stava avverando. Vorrei che i signori che avevano cominciato questa guerra e che poi l’avevano trascurata e lasciata a metà, avessero capito la durezza dei nostri sacrifici. Sarebbe bastato che avessero provato una parte dei nostri disagi, che noi soldati d’Africa sopportammo, le lacrime di disperazione che dovevamo ingoiare, combattendo con quei carri che non andavano, per rendersi conto del nostro profondo tormento e del nostro stato d’animo. Non bastava la bravura dei carristi e l’audacia dei piloti per fare andare avanti quei carri. Ebbene, cari signori della guerra, dicevamo e pensavamo, se oggi ci troviamo inchiodati su questo lembo di terra, senza più via di scampo, la colpa è vostra.

Noi compimmo fino in fondo il nostro dovere e, anche se vinti, non abbiamo di che arrossire. Me ne stavo riparato dal paracarro senza nessuna speranza quando dalla strada, in mezzo alle cannonate, sbucò un motociclista della P.A.I. (Polizia Africa Italiana. Mi vide ed immaginando che fossi ferito, rischiando molto si girò sulla strada e mi prese a bordo. Mi aggrappai a quel motociclista che Iddio aveva mandato a soccorrermi. Era anziano, poteva essere mio padre. Era una persona con un cuore immenso. La moto era quella in dotazione alla Polizia Stradale, una Moto Guzzi , 250 di cilindrata, denominata "Faccetta nera".

All’ospedaletto da campo n° 88, avevano molto lavoro. L’offensiva si intensificava, le ambulanze andavano e venivano: era uno spettacolo desolante. Furono ricoverati tre feriti inglesi. Uno lo avevo a fianco del mio letto. Ci guardammo in silenzio e credo che in quel momento pensassimo la stessa cosa: "Perché questa guerra? Perché popoli civili si devono scannare quando sarebbe sufficiente un’intesa, un atto di buona volontà?". Mentre facevo queste considerazioni, udii la voce dell’infermiere gridare: "aerei nemici in vista! Tutti i meno gravi nei rifugi". Feci appena in tempo che una gragnuola di bombe colpì il suolo vicinissimo alle tende, squarciandole e causando un morto e diversi feriti tra gli infermieri. Trovai i tre inglesi, vicini di branda, tremanti ed impauriti. Nei loro occhi si leggeva la nostra stessa pena. I capisaldi sette, otto e nove caddero, investiti come furono da una valanga di fuoco. Un Reparto del 7° Bersaglieri, venutosi a trovare allo scoperto in mezzo a quel fuoco terribile, per crearsi un riparo con le mani, scavava con le mani la terra, fino ad asportarsi i polpastrelli delle dita. Quella notte ricoverarono un Tenente del 7° Bersaglieri con il torace trapassato da una pallottola. Lo sentii lamentarsi tutta la notte. All’ospedaletto da campo ebbi modo di confessarmi e comunicarmi, di offrire al Signore tutte le mie sofferenze. La ferita (che non era grave) si rimarginò e la febbre sparì. Chiesi al medico quando avrei potuto raggiungere i miei compagni. "Presto", mi rispose.

P.S. E’ possibile che quell’eroe motociclista rimasto a me sconosciuto mi stia ancora aiutando. Lo sento, lo comprendo quando la sera è apportatrice di tristezza e la nostalgia scende attorno a me. Quando mi vedo seduto a terra vicino a un paracarro continuamente sorpassato dai carri del mio Battaglione che ancora caricano, ancora verso l’alba di una vittoria che non riuscimmo ad afferrare.

Cap. Magg.
ANTONIO TOMBA
Pilota Carro M. 14
Delle colonne Corazzate di Rommel



a cura Cap. Magg. Antonio Tomba

da "Il Centauro" n. 79
Mercoledì, 06 Agosto 2003
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