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Articoli 26/03/2020

di Ugo Terracciano*
Responsabilità ed obblighi nell’era del Coronavirus

All’inizio – stando alla storia contemporanea delle pandemie – era la “spagnola” epidemia di un’influenza letale che tra il 1918 ed il 1920, subito dopo la conclusione del primo conflitto mondiale, sparse nel mondo terrore, morte e danni all’economia. Negli anni ’80-’90 abbiamo avuto la diffusione dell’HIV, allarmante sì, ma nell’immaginario collettivo circoscritta solo ai rapporti tra tossicodipendenti e tra categorie di persone sessualmente orientate. Poi “ebola”, nel 2014, ma in questo caso basta leggerne il nome completo “zaire ebolavirus” per capire come mai la diffusione preoccupò solo relativamente l’occidente, avendo il virus prodotto i suoi effetti letali per lo più in Africa.

Oggi siamo a rischio pandemia con il “coronavirus” e, giustamente, siamo tutti preoccupati per l’emergenza nonché vincolati al rispetto di provvedimenti severi prima impensabili che condizionano inevitabilmente gli stili di vita delle persone. A farne le spese – a parte l’economia, ma questa è una conseguenza – è la mobilità delle persone o, meglio, se la mettiamo in termini di esercizio dei diritti fondamentali, la libertà di circolazione garantita dall’art. 16 della Costituzione che recita “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza...”. Detto questo, è piuttosto evidente che quella alla libera circolazione è una prerogativa che recede, come sta avvenendo in questi giorni, quando si tratta di assicurare il superiore diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione.  Fin qui tutto chiaro dato che nessuno – compreso chi non fa il giurista di professione – può dubitare del fatto che il diritto alla salute sia una precondizione per l’esercizio di ogni libertà, compresa quella di circolazione e di riunione (ex art. 17 Cost.), anche se per quest’ultima (volendo fare la cosiddetta punta agli spilli) le limitazioni per dettato costituzionale sarebbero legittimate solo da ragioni di “pubblica incolumità” (concetto diverso da quello di salute).
Fin qui i principi ma siamo consci che, come avviene di regola nel mondo giuridico, le conseguenze di un provvedimento sono pesate solo in epoca successiva, con la stadera di una giustizia che valuta con il dovuto distacco le eventuali responsabilità in gioco. Ed è in quest’ottica che è corretto interrogarsi – sulla base della giurisprudenza pregressa - sugli effetti della trasgressione degli obblighi individuali e di quelli connessi all’esercizio del controllo e dell’assistenza.

La violazione delle ordinanze
: i profili penali connessi alla violazione delle ordinanze sanitarie riguardano il tema dell’inosservanza dei provvedimenti legalmente dati dall’Autorità (art. 650 c.p.). Si tratta i una norma “in bianco”, nel senso che la pena è stabilita dal codice ma spetta di volta in volta al provvedimento amministrativo “compilare” alla bisogna la “casella” (in bianco, appunto) nella quale prefigurare il comportamento sanzionabile. La pena è dell’arresto fino a 3 mesi o l’ammenda fino a 206€. Il trasgressore viene deferito all’Autorità Giudiziaria in stato di libertà e la violazione, trattandosi di un reato di mera condotta, viene constatata e contestata dallo stesso operatore di polizia che procede al controllo. Il riferimento alla norma dell’art. 650 c.p. è contenuto espressamente nell’art. 3 del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6 (sull’emergenza coronavirus) e riguarda anche la violazione delle ordinanze ministeriali in materia.
 

Ai fini della configurabilità della fattispecie, per quanto concerne l’elemento psicologico del reato, è sufficiente la mera colpa (vedi Cass. n. 11187/1994), come per tutte le contravvenzioni, ma sia la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. I, 11 marzo 1995, n. 2398) sia quella di merito (Trib. Palermo, 25 novembre 2006, n. 2994) sono orientate nel senso di richiedere una forma di intenzionalità alla base dell’omissione, che renda evidente l’intenzione dell’agente di non osservare, senza giustificazione, l’ordine datogli. Il fatto che si tratti di una norma in bianco – che lascia alla pubblica amministrazione il compito di stabilire mediante provvedimento amministrativo il comportamento vietato – non significa che la norma possa violare il principio di “tassatività” della condotta sanzionata. In altri termini, il destinatario del provvedimento deve poter comprendere bene ciò che è vietato fare. Sarà piuttosto difficoltoso per il poliziotto che controlla, in primis, e per il giudice poi, valutare in quali casi il divieto sia rispettato dato che possiamo nutrire più di una perplessità sull’estensione del divieto. Insomma, il divieto principale (divieto assoluto di circolazione e di assembramento) è ben comprensibile, ma è meno chiara l’estensione delle eccezioni che legittimano le deroghe al divieto. Così, è legittimo uscire di casa per andare al lavoro, ma la cosa vale anche per le cosiddette partite IVA, per gli amministratori di società, per i lavoratori para-subordinati, per chi si dedica al volontariato (esempio volontari della Croce Rossa Italiana che guidano le ambulanze)? Stando al decreto, è altresì legittimo derogare al divieto per “motivi di salute”, ma si tratta della propria salute (di chi va in farmacia o all’ospedale) o anche della salute altrui (assistenza a familiare anziano non convivente)? E’ prevista, poi, una deroga al divieto per chi “rientra al proprio domicilio” ma, in questo caso, la valutazione sulla legittimità del motivo inevitabilmente dovrà riguardare più che il motivo del rientro, la ragione per cui si era usciti, considerato che il rientro è addirittura consigliato se non imposto. La motivazione che lascia più spazio all’interpretazione – a danno della tassatività della norma – è il riferimento alle “situazioni di necessità”.

Non incorre nel divieto chi possa comprovare una situazione di “necessità”. Certo, vale sempre il brocardo latino “necessitas non habet legem”, principio che però, nel nostro diritto, è circoscritto allo “stato di necessità”, cioè alle situazioni nelle quali si debba salvare sé o altri da un pericolo attuale di un danno grave non evitabile. Il decreto, però, non parla di “stato di necessità”, ma di “situazione di necessità” la quale è, per definizione, “la condizione corrispondente all’impossibilità, assoluta o relativa, di qualsiasi scelta o sostituzione”. Qui, è il termine “relativa” che riferito alla condizione contingente apre la strada alle ipotesi più disparate. Facciamo qualche astruso esempio di vita quotidiana: quello che fa Jogging perché reputa che questa pratica sia consigliata per tenere bassa la pressione è giustificato? L’altro che invece lo fa per mantenere la linea lo è altrettanto? Sono due situazioni di “relativa” necessità, la prima relativa alla salute attuale, la seconda alla salute futura.

Infine, sul piano sanzionatorio, occorre prendere in considerazione una seconda eventualità, che potremmo definire come “caso di provvedimento a catena”: se gli agenti fermano il soggetto e valutano che la motivazione non è plausibile oppure esula dalle fattispecie previste, dopo aver contestato il reato, dovranno impartire inevitabilmente l’ordine di tornare al domicilio, la cui violazione comporterà una nuova ipotesi di violazione dell’art. 650 c.p. essendo assodato che la violazione si configura anche per l’inottemperanza di un comando impartito oralmente.

La responsabilità degli operatori: Certo non sarà questo il tempo di controlli con l’etilometro (di fatto sospesi in costanza dell’ordinanza), data la contrazione della mobilità stradale e la chiusura anticipata degli esercizi pubblici. Tuttavia, è curioso rilevare che, in quanto al controllo dell’alcolemia alla guida, c’è chi la paura di un qualsiasi contagio l’aveva manifestata (strumentalmente) anche in passato. E’ il caso di un’automobilista di Milano che beccato positivo al controllo dell’alcolemia aveva chiesto di essere assolto perché gli operatori di polizia lo avevano invitato a soffiare per due volte consecutive senza cambiare il boccaglio. Non ci voleva la Cassazione (che pure si è pronunciata con sentenza n. 41907 del 26 settembre 2018), per capire che la disciplina vigente non impone la sostituzione del boccaglio laddove si proceda nei confronti del medesimo individuo. Infatti, come si desume dal punto 3.6 dell’allegato al D.M. n. 196/1990 (“Igiene”), la sostituzione attiene a motivi sanitari e mira ad evitare la trasmissione di virus, batteri e malattie, sicchè non riguarda l’esecuzione del controllo nei confronti della medesima persona (in tale senso anche Cass. Pen. Sez. 4, n. 26168 del 19 maggio 2016). Che fare in caso di sinistro mortale in epoca di coronavirus? Certamente quello che ci sentiamo di escludere o meglio sconsigliare – senza arrivare agli eccessi di cui alla sentenza citata – è di procedere col controllo strumentale, optando per gli esami clinici o comunque in ambienti protetti.

La responsabilità del contagiato: In ordine alla responsabilità di chi è positivo al tampone e quindi sa di avere contratto il virus, la prima ipotesi che viene in evidenza è quella del reato di “epidemia” punito dall’art. 438 c.p. Qui, in dottrina e giurisprudenza, si confrontano due opposte visioni circa la punibilità: secondo la tesi più restrittiva la norma punisce chi cagioni l’epidemia mediante diffusione di germi patogeni di cui abbia “il possesso” (per esempio, animali da laboratorio), escludendosi così che una persona affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che la affliggono. L’opinione prevalente, e di segno contrario, ritiene invece che ai fini della diffusione non sia necessario che il soggetto agente e i germi siano entità separate, ben potendo aversi epidemia quanto l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni. Ciò significa che commettere il reato anche colui il quale, consapevole di aver contratto un virus, continui a circolare liberamente, diffondendo la malattia. Qui, il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di diffondere germi patogeni, unite alla rappresentazione e volontà del contagio di un certo numero di persone. La giurisprudenza, tuttavia, non esclude la possibile sussistenza del “dolo eventuale” e cioè la punibilità di colui che affetto da malattia contagiosa non abbia una precisa intenzione di diffondere il contagio ma ne accetti l’assoluto rischio.

Quel che più interessa al nostro caso è però che esiste anche un’ipotesi di “epidemia colposa” contemplata nel combinato disposto degli artt. 438 e 452 c.p. che si configura con una diffusione imprudente o negligente di germi patogeni idonei a cagionare quell’epidemia realmente verificatasi. Essendo in vigore il Decreto e le relative ordinanze sanitarie, è pertanto legittimo ipotizzare il reato di “epidemia colposa” a carico di chi, positivo al virus, non osservi la quarantena impostagli, dato che sussisterebbe in tal caso la colpa specifica sotto forma di inosservanza di leggi, regolamenti ordini o discipline.


*Presidente Fondazione ASAPS SSU


 

Giovedì, 26 Marzo 2020
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