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Notizie brevi 16/03/2020

Coronavirus a Bergamo, morto operatore del 118 di 46 anni
L’operatore Diego Bianco deceduto in casa dopo 7 giorni di febbre
NdR: ONORE A DIEGO E GRAZIE. QUESTO PAESE DEVE ESSERE ORGOGLIOSO DI AVERE PERSONE COME TE!
"A Montello era anche a capo del nucleo comunale di Protezione civile."
Condoglianze alla moglie e un abbraccio al suo bambino. Una preghiera. Grazie preziosi amici del 118 per quello che fate!!(ASAPS)

L’operatore Diego Bianco deceduto in casa dopo 7 giorni di febbre. La centrale chiusa una notte per sanificazione Il dirigente dell’emergenza: «L’angoscia è tanta»

Era molto malato e lo aveva capito: «Mi sento come se mi avesse tirato sotto un camion», aveva detto a un collega. Ma era ottimista: «Ce la faremo», ripeteva. Diego Bianco, 46 anni, morto ieri mattina nella casa di Montello dove viveva con la moglie e il figlio di 8 anni, aveva trascorso le ultime settimane nei lunghi snervanti turni al telefono nella centrale del 118 per cercare di affrontare l’ondata della malattia. La stessa che ha colpito una dozzina di suoi colleghi e ha infine stroncato anche lui.

La volontà di prestare soccorso a chi stava male lo aveva accompagnato per tutta la vita. Aveva iniziato a lavorare come conducente di ambulanze alla Casa di riposo di via Gleno a Bergamo dove aveva prestato servizio anche il padre, poi aveva svolto il compito di soccorritore a bordo delle automediche prima per l’Azienda ospedaliera di Seriate e poi per quella di Treviglio. Quando il 118 si era organizzato in Servizio regionale di emergenza urgenza, Bianco aveva vinto il concorso diventando uno dei primi operatori tecnici ad essere assunti intorno al 2011, quando il servizio si trovava ancora all’interno degli Ospedali Riuniti di Bergamo. «Era sempre molto tranquillo anche nelle emergenze — lo ricorda Oliviero Valoti, all’epoca a capo del 118 bergamasco —. La sua esperienza sul campo lo aiutava meglio a capire come muoversi. E ogni tanto tornava a fare il soccorritore». A Montello era anche a capo del nucleo comunale di Protezione civile.

Diego Bianco era uno dei tecnici che rispondono al telefono al Soreu delle Alpi, che ha sede al Papa Giovanni e riceve chiamate anche da Brescia e Sondrio: si ascoltano le voci concitate di chi segnala l’emergenza e poi le si smista a chi deve intervenire. Sabato 7 marzo ha avuto all’improvviso febbre a 39 e negli stessi giorni altri otto operatori, sei infermieri e quattro medici, che sono stati mandati a casa. Il tampone è stato effettuato giovedì. Intanto nella notte tra martedì e mercoledì gli operatori attivi sono stati trasferiti a Milano mentre la centrale di Bergamo veniva sottoposta a sanificazione.

Con i colleghi che lo chiamavano, Bianco alternava momenti di ottimismo in cui raccontava di tosse e febbre alta ma si diceva sicuro di guarire, ad attimi di disperazione in cui temeva di lasciare soli moglie e figlio. La morte è avvenuta ancora prima che arrivasse l’esito del tampone.

«Era una persona molto preparata, che sapeva sempre come muoversi», lo ricorda il responsabile del 118 di Bergamo Raniero Frizzini. Il dirigente cerca di prendere una pausa dal lavoro di ogni giorno ma è difficile togliersi di dosso la cappa di fatica e disperazione. Ogni giorno si tratta di smistare fino a 1.3o0 richieste di aiuto. Per tenere dietro alle chiamate parte delle telefonate vengono smistate ad altre province, collegate a Bergamo da remoto. Le settanta ambulanze non bastano più, ne sono state fatte arrivare altre quaranta dal resto della Lombardia.

Nella centrale del 118 all’interno del Papa Giovanni ci sono ottanta operatori che si alternano su tre turni. «Ma c’è gente che i turni li fa doppi, che resta al suo posto alla fine del lavoro, che salta giorni di riposo, e sempre senza che ci sia bisogno di chiederlo — mormora il dirigente facendo lunghe pause fra una frase e l’altra e lottando per non farsi sopraffare dall’emozione —. Non ho più parole per ringraziare tutti gli operatori per il lavoro straordinario che stanno facendo».

Ognuno di loro riceve fra 70 e 80 chiamate a turno, ed è un lavoro che lascia pesanti conseguenze. «Per tutti noi si tratta di una fatica più psicologica che fisica — spiega Frizzini —. Siamo abituati a lottare contro la malattia e l’emergenza, ma una cosa del genere non l’aveva vissuta nessuno, sembra di non riuscire mai a starle dietro. Sembra che a una certa ora le telefonate si calmino ma poi tutto ricomincia. È ancora peggio quando al telefono ti rendi conto che, come diciamo noi, il paziente ti sta scappando di mano». Fa una pausa. Deglutisce, cerca le parole: «E alla fine della giornata l’angoscia è davvero tanta per tutti».

di Fabio Paravisi e Gianni Santucci
da corriere.it

Lunedì, 16 Marzo 2020
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