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Articoli 07/10/2019

di Lorenzo Borselli (*)
Trieste: “End of Watch”. La morte di due poliziotti e la fine di un sistema che abdica al monopolio dell’uso della forza legittima e si consegna all’anarchia

Matteo e Pier Luigi in un loro selfie a riprova di quanto i due agenti fossero non solo colleghi, ma veri amici.

(ASAPS) Saranno contente, oggi, quelle persone che ci odiano. Quelle che quando capiscono di essere inquadrate urlano a squarciagola che dobbiamo morire e ci sbraitano contro che siamo assassini, come se tutti noi avessimo pestato a morte Stefano Cucchi, come se tutti noi avessimo sparato a Gabriele Sandri, come se tutti noi ci si svegliassimo al mattino per andare in cerca di ragazzi come Federico Aldrovandi col proposito di ammazzarli.
Bene, hanno chiamato il nostro sangue e ancora una volta lo hanno avuto.
Saranno contenti ora, almeno per un po’?

Da sinistra l'Agente Scelto Matteo De Menego e l'Agente Pier Luigi Rotta

Parliamo della società che ci chiede di essere difesa e che, lo sappiamo, stamattina sembrerà tutta unita, unanime nel condannare la proditoria violenza di Alejandro Augusto Stephan Meran, dominicano 29enne, che ha disarmato e ammazzato due poliziotti, i nostri Pierluigi Rotta e Matteo Demenego, di 34 e 31 anni.
Gli agenti lo avevano accompagnato in Questura, insieme al fratello Carlysle Stephan, in relazione alla rapina di uno scooter. Sembrava una situazione tranquilla e, quindi, la tensione si era abbassata, anche se il bravissimo Chef Rubio pensa che sia “inammissibile che un ladro riesca a disarmare un agente”.
Eh già… Lo Stato che “manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente”, dice Rubio, che arriva ad una conclusione: “io non mi sento sicuro in mano vostra”, riferendosi, ci sembra, allo Stato.
Sapessi noi, caro Rubio, che se ci azzardiamo ad ammanettare una persona sospettata di reati per portarla in ufficio rispondiamo di sequestro di persona, se non di tortura.
Siamo noi, caro Chef, a non sentirci più sicuri della società, da un pezzo.
Sia inteso: non ce l’abbiamo con lei, Chef.

La società, che oggi è unanime, ieri chiedeva spiegazioni al nostro Capo Franco Gabrielli, per l’ “aggressione” a un parlamentare; prima ancora voleva la testa del poliziotto che aveva sparato al pitbull a Napoli (che lo stava mordendo); è arrivata a considerare di lieve entità lo sputo in faccia a una donna o a un uomo in divisa ed ha abolito l’oltraggio, oltre a depenalizzare continuamente reati di ogni tipo.
Che ha un sistema per il quale anche chi viene arrestato per reati gravi non sta in carcere, che è così “buonista”, “garantista” e “politicamente corretto”, dal dover varare continuamente leggi speciali – se non nella forma, nella sostanza – per far fronte alla violenza di genere o ai reati contro il patrimonio. Come se fosse più grave ammazzare una donna invece che un uomo.
Non sarebbe più semplice pensare a un codice penale e di procedura che all’omicidio volontario risponda semplicemente con l’ergastolo? Che c’è di sbagliato?
Abbiamo dovuto fare la legge sull’omicidio stradale, vi rendete conto?
Perché, chi scrive, viene sentito oggi per processi scaturiti da indagini del 2004 o del 2005?
Perché questi processi si prescrivono? O meglio: perché questi processi non si fanno?
Perché, chi scrive, è arrivato a considerare inutile arrestare un delinquente o è colto da una specie di ansia quando deve chiamare un pubblico ministero per comunicare un avvenuto arresto?
Forse perché si è sentito dire più di una volta che l’arresto non s’aveva da fare?
Perché la politica, di ogni colore, ha ritenuto nel tempo di dover rendere sempre meno sicura la nostra società?
Certo, le forze dell’ordine sbagliano. C’è una pagina, su un sito che ricorda Carlo Giuliani, nel quale sono elencati gli eccidi della polizia dal dopoguerra ad oggi.
Ma chi muove le pedine? Chi le mosse allora? Siamo forse cittadini di una democrazia illiberale?
Ovvio: “l’abuso è lo strumento attraverso il quale l'agente pubblico innesca il processo causale che conduce all'evento terminale”, dice la Cassazione (Cass. Pen, SS.UU., sentenza 14 marzo 2014, n. 12.228), ma i tribunali penali esistono proprio per questo, per giudicare condotte personali.
Dov’è che l’abbiamo sentito? Forse all’articolo 27 della Costituzione?

Eppure, con il trascorrere degli anni, nonostante le pagine eroiche e positive siano state infinitamente di più di quelle vigliacche e vergognose, la società, anzi, lo Stato, ha deciso di rinunciare alle sue prerogative: potere e autorità.
Il primo, come dicono i testi di scienza politica, consiste nella capacità di ottenere gli effetti desiderati, la seconda, invece, nel diritto di comandare. Lo ha detto Max Weber.
Magari stiamo dicendo “cazzate”, ma all’università insegnano che quando uno Stato non è più capace di esercitare il suo ruolo principale, ossia monopolizzare l’uso legittimo della forza nel suo territorio, può dirsi “fallito”.
E se direte che vogliamo esercitare la forza, non avete capito, non volete farlo.
Noi abbiamo p-a-u-r-a, chiaro?
Paura perfino di aiutare il controllore del treno a farsi dare il documento da chi si rifiuta, paura di ammanettare un sospetto con le mani dietro la schiena, paura di contenere una persona in stato di agitazione, paura di tenere un arrestato o un fermato in una camera di sicurezza (dove sia a norma, perché la maggior parte non lo è).
E questa paura scaturisce da una società che ci vede come il nemico, come sceriffi ignoranti che si mettono la divisa per il gusto di essere arroganti, incapaci di far altro.

Il taser non ce l’ha quasi nessuno, il peperoncino idem, delle fascette di plastica non ne parliamo. Le divise sono poche, di taglie sbagliate, le fondine difettose, i gradi si scollano, le auto civetta mancano, le radio non ci sono, le leggi non servono, le multe si annullano, quando prendiamo un corrotto non lo cacciamo, anzi lo rimettiamo al suo posto, perché con la scusa del terzo grado di giudizio obbligatorio nel frattempo i reati si prescrivono e quindi, bomba libera tutti.
Siamo persi, disorientati, impauriti.
Così soli, in quello che facciamo, che abbiamo paura anche solo a parlare di ansia, perché poi arriva uno psicologo che ti toglie pistola e tesserino e ti mette a casa senza un perché, come mettere a posto le carte bastasse anche a sanare le coscienze.
Saremmo bugiardi se non dicessimo tutte queste cose. E ipocriti.
Sicuramente non saremmo di alcun aiuto.
Per cui, cara società unanime, cari media che immortalate i bigliettini sui mazzi di fiori lasciati dalle anime toccate dalla morte di due eroi bravissimi, preparati e buoni nel senso più umano del termine, ma soprattutto cari politici, invece di piagnucolare riprendete in mano il Paese e il suo destino e cominciate col restituirgli dignità.
Viva Pierluigi, viva Matteo, viva la Polizia di Stato. E, anche se vi suonerà strano, Viva l’Italia. (ASAPS)

(*) Responsabile nazionale della comunicazione di ASAPS ma, soprattutto, Poliziotto



 

La dura analisi del nostro Lorenzo Borselli sul duplice omicidio nella questura di Trieste  dei due agenti che erano anche grandi amici. (ASAPS)

 

Lunedì, 07 Ottobre 2019
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