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Articoli 20/11/2013

Sardegna: meteo impazzito ma anche sistema che non funziona e che non si adegua
Prevedere? Si, ma anche provvedere, con coraggio e determinazione che non vediamo
Non resta che piangere

di Lorenzo Borselli

(ASAPS) 20 novembre 2013 – Forse dovremmo fare come gli americani: intanto rimboccarsi le maniche e poi discutere su ciò che non ha funzionato, studiare un sistema che eviti il riprodursi del danno e risolvere il problema. Prevedere e provvedere.
Chiariamo che sappiamo essersi trattato di un evento non solo eccezionale ma abnormemente eccezionale e che quindi non possiamo semplicemente fare l’allenatore nel pallone, all’italiana maniera e limitarci a dare la colpa al governo ladro perché piove. Parliamo da esperti di sicurezza, anzi da manovali della sicurezza, perché mentre i giornalisti arrivano a montare le parabole, molti di noi hanno già dato e per “noi” parliamo di aderenti al sistema professionale del “soccorso pubblico”, pensando cioè a Protezione Civile, Vigili del Fuoco, forze di Polizia e sistema sanitario.

 

Cos’è che non ha funzionato, stavolta? Partiamo dalla previsione, ma solo per accennare la questione: in molte aree del pianeta si sa sempre in anticipo cosa accade o cosa dovrebbe accadere. In Sardegna ci si aspettava un evento del genere? C’è chi dice di si e chi dice di no, ma se è sì, ha funzionato tutto a dovere? A noi, sembra di no.
Detto questo: quale area italiana è capace di dare una risposta a un allarme di questo tipo? Ci spieghiamo. In tempo di guerra, quando i bombardieri sorvolavano le nostre città, si suonavano le sirene e tutti venivano messi al corrente della minaccia imcombente. In pochi minuti i cannonieri erano al loro posto e i cittadini si nascondevano nei rifugi.
Oggi? Chi avverte chi? La risposta è: nessuno o se viene fatto, viene fatto male, coi tempi elefantiaci della burocrazia, dimenticando che la risposta all’emergenza dovrebbe essere un atto intrinseco del soccorso pubblico che, proprio per questo, dovrebbe rispondere all’emergenza e non farne parte.
Un agente di polizia che scorta un’ambulanza verso l’ospedale, mentre là fuori si scatena una bomba d’acqua, dovrebbe poterlo fare avendo la certezza che quel percorso sia sicuro al di fuori di ogni dubbio, ma per arrivare a quella sicurezza serve un lavoro di anni.

 

Torniamo alla legge della fisica: l’acqua lascia un ricordo di dove passa e quindi si tratta di un fenomeno ricostruibile e quindi preventivabile. Un geologo, un climatologo e un ingegnere potrebbero – crediamo – creare un modello ambientale e determinare un grado di sicurezza o di rischio per un determinato tratto di strada che, quindi, potrebbe definirne la percorribilità in caso di determinate emergenze.
Questo potrebbe creare un volano di occupazione permanente che impiegherebbe il Paese in un’opera all’olandese maniera: dito su dito per tappare la falla alla diga e alla fine la diga è sicura.
Non è una cosa facile, lo sappiamo, ma non possiamo nemmeno pensare che poi un poliziotto debba morire perché nessuno ha pensato che un fenomeno eccezionale abbia poi un potenziale distruttivo tale da far crollare un ponte e se non fosse morto il poliziotto, in quella buca ci sarebbe finita l’ambulanza.

 

Da decenni, dai tempi Vajont, da quelli del Polesine, di Firenze e poi da quelli di Sarno, sappiamo che il dissesto del territorio, l’abbandono e l’urbanizzazione selvaggia, sono fattori aggravanti di fenomeni atmosferici più o meno rilevanti. Si tratta delle cosiddette “tragedie annunciate” che nessuno sventa: è certo che arriveranno i bombardieri e che scaricheranno il loro carico distruttivo, ma nessuno suona la sirena, nessuno appronta la contraerea o scava i rifugi.
Le migliaia di case costruite sulle pendici del Vesuvio ospitano 700mila persone alla mercé di un vulcano attivo, in un territorio che comprende 24 comuni, i cui serbatoi di magma sono al momento considerati sicuri ma se poi scoppia?
Facciamo una previsione? La Protezione Civile arriverà sul posto, assisteremo a generosissime gare di solidarietà, piangeremo i morti e spenderemo miliardi di euro nella ricostruzione, tasseremo la benzina con una-tantum – pare che ad ogni rifornimento di carburante pesino ancora accise vecchie di 70 anni, come quella da 1,90 lire voluta da Mussolini per finanziare la guerra in Libia del 1935 – e vedremo trasmissioni serali nelle quali i politicanti di turno ringrazieranno i volontari, dimostreranno affetto e solidarietà alle vittime e prometteranno ricostruzioni al di fuori del patto di stabilità, lo stesso che, forse, impedisce a molti comuni di “fare” prima.

 

Del Vesuvio non ci si scorderebbe tanto facilmente (Pompei docet), ma di tante altre emergenze, purtroppo sì. Chi si ricorda della “piccola” tragedia di Atrani del 2010, piccolo paese della Costiera Amalfitana sconvolto dalla piena del torrente Dragone, colpevolmente coperto dall'uomo per consentire la costruzione di un parcheggio al di sopra della spiaggia? Pochi in verità e infatti nulla è stato fatto per rimettere in sicurezza il territorio. In parole povere, l’uomo ha costruito una pistola, se l’è puntata addosso e dopo essersi sparato addosso una prima volta (quella sera morì Francesca Mensi, ritrovata 23 giorni dopo a Panarea…), sta ricaricando per farlo di nuovo. In Italia 6.600 comuni e i 6 milioni di abitanti che li popolano sono a rischio idrogeologico e in 10 anni l’emergenza è raddoppiata.
Intanto, nel taglio della cosiddetta spesa pubblica, si continuano a tenere insieme baracconi costosissimi che impediscono ai vigili del fuoco di addestrarsi e di avere mezzi idonei al soccorso e uomini freschi, al 118 di avere ambulanze sicure e medici e infermieri addestrati all’emergenza extra-ospedaliera. La Polizia non ha praticamente più auto (la Stradale non ha praticamente più fuoristrada), barche o elicotteri. Idem per i Carabinieri, per la Guardia di Finanza, per la Forestale. E mentre facciamo questo elenco, mentre vorremmo parlare di super stipendi, ci viene in mente che se avessimo una classe politica responsabile e coraggiosa, forse avremmo un numero di telefono unico da chiamare e una sola forza di polizia su cui investire.

 

E poi sulla prevenzione. Delocalizzare e abbattere molti edifici costruiti dissennatamente a ridosso dei fiumi o stasare tombini sono cose impossibili da fare? Servono coraggio e buonsenso, ma è meglio “fare” o piangere?
Si legge sul sito della Treccani che l’espressione “piove, governo ladro! è documentata anche con attestazioni letterarie si ripete comunemente per satireggiare l'abitudine diffusa di dare la colpa di ogni cosa al governo, talora anche come espressione di sfogo polemico. È stata creata dal caricaturista Casimiro Teja, direttore del giornale Il Pasquino (1861), a commento del fallimento, causato dalla pioggia, di una dimostrazione di mazziniani a Torino. La vignetta raffigurava tre dimostranti che si riparavano dalla pioggia sotto un ombrello e uno di loro esclamava il motto di protesta”.
Oggi, quell’espressione assume un significato sinistro e forse anche scontato ma la colpa non è della gente che muore affogata nei sottopassi allagati: è del sistema e il sistema può essere cambiato solo con coraggio, determinazione e umiltà, doti che non ci sembrano primeggiare di questi tempi. A dirla tutta, non primeggiano da tempo e per la sirena, pare che dovremo ancora aspettare. (ASAPS)

 

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Mercoledì, 20 Novembre 2013
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