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Articoli 25/06/2012

Vicenza, entrò ubriaco contromano in tangenziale e uccise un 24enne. La madre si suicidò il giorno dopo: condannato a tre anni e otto mesi
La pena restituisce giustizia o deve pensarci la sanzione sociale?

di Lorenzo Borselli

(ASAPS) Forlì, 25 giugno 2012 – Quanto vale la vita di un ragazzo di 24 anni? Quanto costa, alla società, essere privata di una persona così giovane? Quale il peso del dolore per la sua privazione nei congiunti e negli amici?
Quanta frustrazione nel constatare che il prezzo imposto al responsabile della sua morte (per una volta facciamo cronaca senza ipocrisia e lasciamo stare l’aggettivo “presunto”) è sostanzialmente un non-prezzo?
Il 24enne ucciso sulla strada si chiamava Alex Di Stefano e all’alba del 2 giugno 2011 stava percorrendo la tangenziale sud di Vicenza, quando la sua Mini Cooper fu centrata dalla Polo condotta da Mirco Vendramin, 23enne di Carmignano di Brenta (Padova), che aveva imboccato l’arteria contromano che viaggiava, secondo la ricostruzione effettuata a suo tempo, a una velocità di circa 150 chilometri all’ora.


Alex morì sul colpo, mentre Vendramin e la sua ragazza furono trasportati al pronto soccorso, entrambi in prognosi riservata: secondo gli accertamenti l’autore del contromano era sotto l’effetto di alcol e di stupefacenti (anche se l’accusa di narco-ebbrezza è poi caduta in sede di giudizio), ragion per cui alla dimissione dall’ospedale, il 22 giugno successivo, trovò gli agenti della Stradale che lo arrestarono notificandogli una custodia cautelare ai domiciliari, revocata qualche giorno dopo. Il giorno dopo, il 23 giugno, la madre di Alex, Carla Tessari, 48 anni, scese in garage e si impiccò. Il 22 giugno di quest’anno, a poco più di un anno da quella notte, il Tribunale di Vicenza ha condannato Mirco Vendramin a 3 anni e 8 mesi per omicidio colposo, con rito abbreviato, potendo così beneficiare della riduzione di un terzo della pena.
La storia ricorda molto da vicino la sciagura di Campobello di Mazara (Trapani), accaduta il 15 gennaio 2011 e provocata da Fabio Gulotta, 22 anni, che in piena notte e in stato di ebbrezza alcolica attraversò a 120 orari il piccolo centro siciliano, scontrandosi con la Fiat 600 condotta da Baldassare Quinci, che viaggia con la famiglia: la moglie, Lidia Mangiaracina di 37 anni, e i due figli, Martina e Vito, 12 e 10 anni, muoiono nel giro di poche ore. Baldassare, distrutto dal dolore, riceve un avviso di garanzia per il “concorso” nell’omicidio della sua famiglia e qualche mese dopo si appende a una trave.
Gulotta, il 14 giugno scorso, è stato condannato a due anni di carcere, pena sospesa, senza fare nemmeno un giorno di prigione e senza subire sanzioni accessorie sulla patente.
Queste storie, caratterizzate dalla perdita improvvisa e violenta di vite umane, sono il prodotto di una somma di fattori trasgressivi, come l’assunzione di alcol (e droga), velocità pericolose e dispregio di leggi: fattori che suscitano repulsione, certamente, ma che non trovano adeguata corrispondenza nel sistema sanzionatorio del nostro paese.
Il senso d’impunità è così diffuso e forte che spesso l’unica vera sanzione “sentita” dalle vittime (quando sopravvivono) e dai loro familiari è quella “sociale”, per usare un termine improprio, comminata ai colpevoli grazie al tamtam mediatico di giornali, tv, social network e blog; la sua durata è spesso incerta, legata alla scomparsa o alla sospensione del ricordo individuale o collettivo.


L’ASAPS non è d’accordo con chi ha gridato "assassino" e "mostro" a Vendramin, né lo sarebbe con chi volesse farlo a chiunque.
Ma è innegabile che in Italia esista un problema giustizia che non è solo lentezza dei processi: nel gennaio 2012 il ministro Paola Severino ha presentato alla Camera una relazione che definire sconfortante è davvero dir poco: 9 milioni di cause penali e civili all’anno e insopportabile lentezza nei procedimenti. Nel 2011 lo Stato ha sborsato 84 milioni di euro per gli indennizzi delle cause lumaca e poi i troppi errori giudiziari (2.369 procedimenti sbagliati sono costati allo Stato 46 milioni di euro). Per un processo civile servono in media 2.645 giorni (7 anni e 3 mesi) per arrivare a sentenza (con conseguenze pari all’1% del PIL, secondo Bankitalia), mentre per i procedimenti penali i tempi sono stimati a 1.753 giorni (4 anni e 9 mesi). In più, ogni anno si aggiungono 2,8 milioni di nuove cause che si sommano alle altre.
Nel nostro paese c’è un crescente senso d’impunità, dovuto soprattutto all’inadeguatezza delle pene, che non riguarda solo la strada: pochi giorni fa la Squadra Mobile di Pistoia ha sgominato una banda di nomadi rom e sinti specializzata in furti in appartamento. Nelle intercettazioni telefoniche, gli agenti hanno verbalizzato molte conversazioni tra gli indagati e i loro interlocutori esteri, nelle quali i primi invitavano i secondi a raggiungerli nel nostro Paese perché – sono parole loro – “qui girano i soldi” e perché “tutti rubano”, rendendo evidente che sapevano fin troppo bene quanto sia facile farla franca, nello Stivale.
Ragioniamone: in Italia ci sono casi di soggetti arrestati decine di volte, accusati di centinaia di delitti, insomma dei veri e propri professionisti del crimine, che anche quando vengono colti in flagranza di reato e arrestati restano in carcere pochissimo e che, ad ogni puntuale rimessa in libertà, ricominciano daccapo, come se nulla fosse stato, come se la notte in guardina avesse rappresentato una specie di riposo dal lavoro.


Goico Jovanovic, alias Reni Nikolic, alias Goico Nikolc, è un noto truffatore internazionale che nonostante la sua giovane età, 28 anni, è noto agli uffici di polizia: ebbene, nonostante il suo profilo criminale (e dunque, possiamo dire, nonostante la sua pericolosità sociale) era a piede libero quando, la sera del 12 gennaio 2012, scappò all’alt di Nicolò Savarino, agente di Polizia Locale di Milano, non prima di averlo investito e ucciso.
Se la giustizia avesse tempi accettabili, persone come lui sarebbero condannate in tempi accettabili e così anche la funzione riabilitativa della pena sarebbe allineata all’effettivo periodo storico in cui la violazione penale è stata commessa. Spesso invece, quando le pene diventano esecutive, l’imputato è ormai sparito, ha commesso altri reati oppure si è riabilitato da solo.
L’importanza della pena, l’esplicitazione della sua funzione, a nostro parere, è strettamente legata alla celerità con cui questa viene comminata, al termine – ovviamente – di un processo vero, dibattuto in aula e non sui media.
Altrimenti, la frustrazione prende il sopravvento e il senso d’impunità per le inadeguatezze delle pene e delle istituzioni che dovrebbero comminarle secondo equità spinge il soggetto passivo a cercare di farsi giustizia da solo o a cercare consensi, come se l’unica giustizia percepita fosse quella riprodotta in un post e il livello di condivisione sociale fosse rappresentato dal numero “mi piace” collezionati.


Ciò rende il percorso sociale di imputati e vittime più difficile, perché se la giustizia fosse sempre in grado di giudicare rapidamente e secondo equità, anche gli altri scopi per cui la società si è da sempre dotata di leggi sarebbero più facili da conseguire.
Ma serve coerenza, dal legislatore al cittadino.
Nel mese di agosto 2011, pochi mesi dopo il contromano in cui Alex Di Stefano perse la vita, il padre Piero, marito di Carla Tessari, acquistò uno spazio a pagamento sulle pagine del Giornale di Vicenza in occasione del compleanno della moglie, formulando le proprie accuse. Vi si poteva vedere una foto raffigurante lo scenario dell’incidente e accanto all'auto dell'investitore una freccia con l'annotazione “alcol e droga (ancora vivo)”: questo perché l’esame tossicologico evidenziò che nel sangue dell’imputato, Mirco Vendramin, c’era anche cocaina ma… c’è un ma.
Chiediamo giustizia per Alex e Carla”, si leggeva nello spazio sul giornale, in cui l’uomo faceva anche gli auguri alla moglie scomparsa. “Non vorremmo vergognarci di essere italiani”.
Ecco: con una condanna a 3 anni e 8 mesi per omicidio colposo, siamo portati a pensare che Piero Di Stefano, in questo momento, si vergogni di essere italiano, così come aveva profeticamente scritto su quella pagina.
Ad aumentare delusione e frustrazione, la circostanza che la droga nel sangue dell’investitore, innocente fino al terzo grado di giudizio (lo vogliamo ricordare, pur senza troppe ipocrisie), non  basta in Italia a dire che si trovasse in stato di ebbrezza per quell’assunzione.


Il Tribunale di Vicenza ha infatti accolto la tesi del difensore di Vendramin che aveva certamente assunto cocaina, ma che nessuno poteva affermare quando – dal momento che i metaboliti inattivi della cocaina possono comunque essere presenti nelle urine per 48-72 ore dopo la sua assunzione, mentre in consumatori cronici il rinvenimento può avvenire anche a distanza di settimane.
Dunque, nel caso del processo per la morte di Alex (e in moltissimi tra quelli in cui si parli di droga), in dubio pro reo: il giudice, quando non esiste la certezza di colpevolezza, deve accettare il rischio di assolvere un colpevole piuttosto che condannare un innocente.
Non basterebbe, allora, cambiare la legge e, semplicemente, vietare l’uso di droghe per chi – ad esempio – abbia la patente di guida, magari effettuando analisi periodiche a tutti i patentati in sede di rinnovo della licenza?
Perché se non cambia la legge, nessuno avrà mai giustizia e anche Alex sarà morto per nulla. Come sia madre, o come Baldassare. La lista è impressionante. È quella di un genocidio, con tanti carnefici colposi che ci ostiniamo a chiamare con nomi diversi e che nessuno, al momento, pensa a fermare. (ASAPS)

 

 


 

Lunedì, 25 Giugno 2012
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