Infliggere
ai figli minori punizioni umilianti può costituire reato ogniqualvolta
non si rispetti la dignità dei bambini. Lo ha stabilito la
Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione confermando la sentenza
di condanna della Corte di Appello di Torino nei confronti di un padre
che aveva chiuso in cantina il figlio di due anni sottoponendolo a
continue umiliazioni anche verbali. La Suprema Corte ha chiarito in
proposito che, per configurare il reato di "abuso dei mezzi di
correzione e di disciplina" previsto dal Codice Penale non sono
richiesti solo abusi fisici, ma anche gli abusi psichici, cioè
quelli che possono causare disturbi allo sviluppo del bambino, comportano
conseguenze penali. Così, le continue umiliazioni alle quali
aveva sottoposto il bambino rinchiuso in cantina sono costati al padre
- denunciato dalla madre - tre mesi di reclusione.(22 giugno 2005)
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, sentenza n.16491/2005
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
VI SEZIONE PENALE
SENTENZA
RITENUTO IN FATTO
La
Corte di appello di Torino, con la decisione impugnata, ha confermato
la sentenza 12/6/2001, con cui il giudice per le indagini preliminari
del Tribunale di Acqui Terme, all’esito di giudizio abbreviato,
condannò alla pena di tre mesi e 10 giorni di reclusione C.
C. per il delitto di abuso dei mezzi dicorrezione (art. 571 cod. pen.)
[1] in danno del figlio minore M.
Così il giudice di primo grado aveva riqualificato il fatto,
originariamente contestato come delitto previsto dall’art. 572
cod. pen., per aver maltrattato il figlio M., dall’età
di 18 mesi a quella di due anni e mezzo, sottoponendolo ad un regime
educativo e di convivenza familiare contrassegnato da quotidiana sofferenza
e disagio, per il bambino traumatizzante a causa degli abituali comportamenti
sadici ed aggressivi del C.; regime che determinava nel bambino un
vero e proprio stato di terrore anche per la semplice presenza fisica
del padre e di conseguenza il pericolo concreto per l’incolumità
psicofisica del bambino, dallo stesso come tale avvertito e sofferto.
I maltrattamenti era consistiti: nel tenere abitualmente il bambino
legato alla tavola durante i pasti; nel costringerlo a mangiare anche
il cibo da lui rigurgitato per qualunque motivo; nel tenerlo legato
ad una sedia bendato durante la proiezione in tv di programmi di cartoni
animati in modo che potesse ascoltare il sonoro, ma non vedere le
immagini; nel costringerlo ad immergere il viso nelle proprie deiezioni
in caso di incontinenza; nel chiuderlo al buio nella propria stanza
o in cantina in caso di punizione.
Tale situazione aveva dapprima reso necessario, per iniziativa della
madre A. L., l’allontanamento del bambino dall’abitazione
coniugale, con affidamento di fatto ai nonni materni L. L. e G. G.,
successivamente, con provvedimento del Tribunale per i minorenni di
Torio del 7/9/1999, l’affidamento legale del minore ai predetti
nonni con sospensione dei rapporti con il padre.
La condanna è stata fondata dai giudici di merito sulle dichiarazioni
della L., dei testimoni G. (che riferì anche dell’indicazione
della dott. D. B. circa la necessità di una presa in carico
psicoterapeutica del bambino), R., S., P., nonché su talune
dichiarazioni dello stesso imputato, che aveva fatto riferimento a
metodi educativi severi ereditati dai suoi genitori.
Ricorre per cassazione l’imputato, che deduce inosservanza delle
norme penali (artt. 571 e 572 c.p.) e processuali (artt. 530, 521
e 522 c.p.p.).
Sul piano processuale egli lamenta che i giudici abbiano accertato
i fatti addebitati soltanto sulle dichiarazioni della L. e si duole
che abbiano derubricato l’originaria imputazione di maltrattamenti
in quella di cui all’art. 571 cod. pen., anziché dichiarare
l’insussistenza del fatto originariamente contestato, con eventuale
trasmissione degli atti al PM.
Sul piano del diritto sostanziale, il ricorrente deduce l’insussistenza
degli elementi oggettivi e soggettivi del reato di cui all’art.
571 c.p., rilevando che oil carattere episodico della chiusura in
cantina e l’aver occasionalmente sfregato i pantaloni umidi sul
viso di M. non può integrare il reato addebitato, in quanto
da tali fatti non deriva alcun pericolo di malattia del corpo o della
mente.
CONSIDERATO
IN DIRITTO
Il
ricorso è manifestamente infondato.
Correttamente, con adeguata e esaustiva motivazione, i giudici di
merito hanno assunto a base della ricostruzione dei fatti le dichiarazioni
della mamma della piccola vittima, valutate anche con riferimento
a riscontri costituiti dalle dichiarazioni di testi de relato e dai
provvedimenti via via adottati dal Tribunale per i minorenni, a tutela
del piccolo M.
Del tutto inconsistente è poi la denunciata violazione degli
artt. 521 e 522 c.p.p.: i fatti ritenuti in sentenza sono conformi
alla contestazione originaria, salva la diversa definizione giuridica,
operata nell’ambito della competenza a norma dell’art. 521
comma 1 c.p.p.
Sul piano sostanziale, il ricorrente non ha davvero motivo di dolersi,
a differenza di quanto avrebbe potuto più fondatamente fare
il PM: il fatto commesso dall’imputato, qualificato dai giudici
come abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.), è al limite
del più grave delitto di maltrattamenti verso il figlio, ritenuto
da questa Corte (in una fattispecie concreta molto prossima a quella
oggi in esame) con la sentenza Cambia del 1996 (v. Cass. 4904/1996,
in Cass. Pen. 1996), la quale ha evidenziato l’inaccettabilità
d’interpretazione dell’art. 571 c.p. (abuso dei mezzi di
correzione) e dell’art. 572 c.p. (maltrattamenti verso i fanciulli)
secondo canoni e contesti socio culturali propri del 1930 c.p.
È, infatti, culturalmente anacronistico e giuridicamente insostenibile
un’interpretazione degli artt. 571 e 572 cod. pen. fondata sulle
concezioni ideologiche espresse nella relazione al codice penale (come,
ad es., la vis modica è mezzo di correzione lecito), proprie
di una superata epoca storico sociale, impregnata di valori autoritari
anche nelle strutture e nelle funzioni della famiglia.
Va, per contro, ribadito che nell’ordinamento italiano, incentrato
sulla Costituzione della Repubblica e qualificato dalle norme in materia
di diritto di famiglia (introdotte dalla L. n. 151/1975) e dalla Convenzione
delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (approvata a New York
il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con L. n. 176/1991),
il termine correzione, utilizzato dall’art. 571 c.p., va assunto
come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente
conformativi di ogni processo educativo.
E poiché da tale processo va bandito ogni elemento contraddittorio
rispetto allo scopo ed al risultato che il nostro ordinamento persegue,
in coerenza con i valori di fondo assunti nella Costituzione della
Repubblica, non può più ritenersi lecito l’uso
della violenza, fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato
a scopi ritenuti educativi: ciò sia per il primato attribuito
alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare
di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di
protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti;
sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa,
un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile
ai valori di pace, tolleranza e convivenza, utilizzando mezzi violenti
e costrittivi che tali fini apertamente contraddicono.
Con specifico riferimento alle espressioni linguistiche utilizzate
nell’art. 571 cod. pen., va ancora precisato che la nozione giuridica
di abuso dei mezzi di correzione non può ignorare l’evoluzione
del concetto di abuso sul minore, che si è andato via via evolvendo
e specificando nel tempo.
Da una sorpassata e limitativa nozione di abuso, inteso come comportamento
attivo dannoso sul piano fisico per bambino, l’attuale letteratura
e clinica psicologica e psicopatologica qualificano come abuso anche
le omissioni di cure e l’abuso psicologico, correlato allo sviluppo
di numerosi e diversi disturbi psichiatrici.
Costituisce abuso punibile a norma dell’art. 571 cod. pen. (e
che, nella ricorrenza dell’abitualità e del necessario
elemento soggettivo, può integrare anche il delitto di maltrattamenti)
anche il comportamento doloso, attivo od omissivo, mantenuto per un
tempo apprezzabile, che umilia, svaluta, denigra e sottopone a sevizie
psicologiche un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche
se è compiuto con soggettiva intenzione correttiva o disciplinare.
Per l’integrazione della fattispecie prevista dall’art.
571 cod. pen. è sufficiente il dolo generico, non essendo dalla
norma richiesto il dolo specifico, cioè un fine particolare
e ulteriore rispetto alla consapevole volontà di realizzare
il fatto costitutivo del reato, ossia la condotta di abuso.
La più recente ed autorevole ricerca e clinica e neuropsichiatrica
infantile sottolinea la maggiore pericolosità e incidenza sugli
aspetti strutturali della psiche infantile (nonché l’alto
potenziale patogenico) della violenza psicologica, anche rispetto
a quella fisica, pur con l’avvertenza della difficoltà
di individuare i confini tra vera e propria violenza da meri atteggiamenti
pedagogici rigidi o inadeguati per incuria.
Ed a tale proposito, costituisce accertamento di fatto, insindacabile
in questa sede, la sussistenza sia di condotte dell’imputato
comportanti violenza e costrizione psichica verso il bambino sia dell’elemento
soggettivo doloso, motivatamente ritenuta dai giudici di merito.
Anche alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche,
il Collegio ritiene corretta la valutazione dei giudici di merito,
secondo cui gli atti compiuti dall’imputato hanno realizzato
traumi psicologici per la piccola vittima e, perciò, fatti
da cui deriva pericolo di una malattia nella mente della parte offesa.
Invero, a tale espressione, utilizzata dal legislatore negli artt.
571 e 582 cod. pen. con riferimento alla vittima del reato, non può
certamente assegnarsi significato identico, analogo o assimilabile
a quello di infermità mentale (rectius stato di mente per infermità),
utilizzata dagli artt. 88 e 89 c.p. in tema di imputabilità
penale dell’autore del reato.
Sussiste il pericolo di malattia nella mente ogni qualvolta ricorre
il concreto rischio di rilevanti conseguenze sulla salute psichica
del soggetto passivo.
Ed è opinione comune nella letteratura scientifico- psicologica
che metodi di educazione rigidi ed autoritari, che utilizzino comportamenti
punitivi violenti o costrittivi, come quelli realizzati dall’imputato,
siano non soltanto pericolosi, ma anche dannosi per la salute psichica.
È ormai nozione corrente che i traumi psicologici, ossia gli
scatenamenti di emozioni violente prodotte da cause esterne, sono
responsabili di una serie di disturbi variegati e complessi: dallo
stato d’ansia all’insonnia e alla depressione, fino, quando
il trauma si è verificato nei primi anni di vita, a veri e
propri disturbi caratteriali e comportamentali nell’età
adulta.
Ed il termine disturbo non connota una patologia di livello inferiore
a quello di malattia, trattandosi invece di espressione linguistica
utilizzata da approcci psicologici comportamentali o cognitivi ai
problemi di natura clinica, che prediligono una terminologia più
propriamente psicologica, rifiutando quella di malattia mentale, anche
al fine di superare paradigmi e approcci esclusivamente medici ai
problemi della sofferenza psichica.
Nell’ambito della psicologia dello sviluppo è pensiero
condiviso che la relazione tra il genitore e il bambino segna, positivamente
o negativamente, lo sviluppo psicologico di quest’ultimo.
In particolare, viene evidenziato l’abuso come fattore di rischio
specifico per molteplici manifestazioni psicopatologiche (depressione,
disturbi dell’alimentazione, comportamenti autoaggressivi, disturbo
dell’attenzione con iperattività, alcolismo e abuso di
droghe, comportamenti sessuali inappropriati e comportamenti antisociali,
etc.).
In campo clinico sono stati evidenziati collegamenti fra l’abuso
e lo sviluppo di alcune patologie psichiatriche: è emerso,
per esempio, che il maltrattamento fisico o emotivo ha un ruolo eziologico
importante nello sviluppo del disturbo dissociativo, ritenuto un grave
disturbo psichiatrico.
È, infine, significativo che l’osservazione clinica di
bambini abusati evidenzi comportamenti violenti nella storia familiare
di almeno uno dei genitori, già vittima a sua volta di esperienze
di violenza fisica o psicologica in età infantile: il bambino
abusato ha perciò probabilità di diventare un individuo
predisposto a relazione violente in cui reitera l’antica esperienza
di abuso; divenuto genitore, egli potrà assumere con i propri
figli comportamenti abusanti, ovviamente anche diversi da quelli sperimentati,
come dimostra proprio la drammatica vicenda umana e familiare, oggetto
del presente procedimento, in cui l’imputato ha evocato i metodi
di trattamento ereditati dai suoi genitori.
Alla declaratoria d’inammissibilità consegue, ex art.
616 c.p.p., la condanna alla spese processuali e alla pena pecuniaria,
determinata in 1000 Euro in relazione alla natura delle questioni
dedotte.
PQM
La
Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali, nonché al versamento di
1000 euro in favore della cassa delle ammende.
Roma, 7/2/2005.
Depositata
in Cancelleria il 3 maggio 2005.