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Articoli 24/08/2007

La guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di sostanze, e il derubricato rifiuto di sottoporsi all’esame. Un indebito vantaggio per i furbi

Una scelta del legislatore assolutamente assurda e irragionevole e, come tale, sospettabile di incostituzionalità

foto Coraggio

Come era stato agevole prevedere, le nuove norme in materia di repressione della guida in stato di ebbrezza si sono mostrate palesemente inadeguate, risultando null’altro che una forma di pura cosmesi giuridica, neppure tanto ben riuscita.

A conferma di tale assunto, di particolare interesse, infatti, risulta la querelle che si è accesa – e non senza ragione – attorno alle singolari previsioni dettate dal comma 7° dell’art. 186 CdS, nonché dal comma 8° dell’art. 187 CdS.

La prima delle due citate norme, infatti, testualmente prevede, in caso di guida in condizione di ebbrezza alcolica, che “…Salvo che il fatto costituisca reato, in caso di rifiuto dell’accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5 il conducente è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 5.000,00 a euro 20.000,00”.

Ad essa la seconda, in una sorta di controcanto, fa eco, confermando, anche per il soggetto che si sospetti alla guida di un veicolo sotto l‘effetto degli stupefacenti, tale pseudo sanzione di puro carattere amministrativo, escludendo, perciò, alla ricordata condotta valenze di natura penale.

E’ di tutta evidenza l’assurdità di tale costruzione giuridica.

In buona sostanza, la condotta di colui che, pur trovandosi in evidenti e percepibili condizioni di alterazione psico-fisica, eluda, furbescamente od anche solo incolpevolmente, il preciso dovere di sottoporsi alla temporanea verifica delle proprie condizioni soggettive, in relazione alla possibilità di porsi alla guida di un autoveicolo, viene classificato, illogicamente in maniera derubricata rispetto alla situazione vissuta da chi si sottoponga – con esito positivo - al controllo di legge.

Quest’ultimo, infatti, può incorrere nelle conseguenze sia penali che amministrative previste dal codice della Strada, mentre il primo rimane immune da sanzioni penali.

Come testè detto, dunque, due possono essere le condizioni che possono favorire l’inadempimento dell’accertamento che il codice della Strada prevede:

1. una consiste nell’oggettiva e palese incapacità in cui il soggetto si trovi a versare a seguito dell’ingestione di alcool o l’assunzione di sostanze stupefacenti.

Evidentemente, in tale situazione l’impossibilità di svolgere il controllo prescinde da un rifiuto volontario del soggetto interessato, posto che questi non è in grado di autodeterminarsi;

2. la seconda deriva, invece, da una deliberata e consapevole volontà del singolo di evitare ogni forma di controllo in relazione alle proprie condizioni psico-fisiche.

Or bene il sanzionare siffatte distinte, ma analoghe, eventualità solo con il ricorso alla sanzione amministrativa, nella forma della inflizione di una pena pecuniaria [che per quanto non modesta, mai è paragonabile sotto alcun profilo alla vera e propria sanzione penale] abbinata ad una possibile sospensione della patente di guida, pare a chi scrive configurare una scelta del legislatore assolutamente irragionevole e, come tale, sospettabile di incostituzionalità.

Se, infatti, valutiamo in comparazione il trattamento sanzionatorio posto a carico di chi venga sottoposto al controllo nelle due forme previste dagli artt. 186 e 187 CdS e l’ipotesi dell’inadempimento al controllo medesimo, che si va esaminando nello specifico, noteremo che la normativa vigente prevede un’indebita quanto ingiusta ed ingiustificata disparità di trattamento fra soggetti che si trovano nelle medesime condizioni di fatto e diritto, premiando certamente il più furbo od il più fortunato.

Non vi sono, infatti, motivazioni di ordine razionale, sia sostanziali, che eventualmente processuali, che possano essere fondatamente addotte per considerare penalmente irrilevante, addirittura, una libera quanto cosciente scelta negativa del singolo (consistente nel non aderire ad un atto di investigazione), che non sia corroborata, a propria volta, da concreti elementi giustificativi, la quale si traduce come opzione ostativa all’accertamento della verità.

Ergo, come detto, si valorizza, in nome di un falso garantismo, in realtà posizioni dei singoli del tutto arbitrarie e non sostenute da cause di giustificazione o ragioni esimenti.

Né può valere a conferire spessore alla discutibile norma ed a sanare la evidente ed emergente disparità di trattamento, che viola – a parere del sottoscritto – l’art. 3 Cost., invocare il principio del nemo tenetur se detegere, di modo che la persona, la quale rifiuta l’accertamento, possa trovare una sorta di giustificazione nella circostanza che egli eserciterebbe di fatto il diritto di non autoaccusarsi.

L’atto di verifica tecnica in questione, infatti, risponde ad un duplice logica, sia di natura accusatoria, che di natura difensiva, posto che il risultato dell’accertamento può concretarsi anche nel senso dell’insussistenza della violazione ipotizzata.

Né si può sostenere seriamente che il sottoporsi ai tests in parola, configuri una sorta di violazione della privacy, della dignità o del pudore di chi vi sia sottoposto, in quanto, da un lato, le modalità degli stessi appaiono rispettosi di siffatte prerogative e, dall’altro, in ultima analisi, si tratta pur sempre di atti di indagine penale, che per la loro natura non possono tollerare – fatto salvo il principio di legalità – limiti di sorta da parte di fonti inferiori.

La prospettiva cui si è ispirato il legislatore, dunque, appare del tutto singolare ed incredibile, in quanto con il riconoscimento implicito della sussistenza, in capo alla persona fermata dalla polizia giudiziaria, di una vera e propria facoltà di sottrarsi al controllo degli organi inquirenti (e si badi bene che non si tratta di un diritto solamente perché vi è previsione di una sanzione amministrativa) si introduce un elemento di pieno e totale sbarramento rispetto a quel tipo di accertamento tecnico non ripetibile che è unico strumento per potere operare una prognosi riguardante la condizione del singolo.

Il pericolo di un amplissimo spettro di assoluta impunità (per un reato di rilevante allarme sociale diretto ed indotto), derivante dall’impossibilità per l’accusa di acquisire la prova della colpevolezza dell’indagato, prova peraltro, (ed è questo il paradosso) spesso esistente e percepibile ictu oculi - dunque, non è di poco conto, perché si deve, infatti, rilevare che – ed è questo un esempio specifico ci viene fornito in materia di stupefacenti – la giurisprudenza non ammette forme equipollenti di verifica diversa da quella codificata.
Con la sentenza 25482 del 3 Aprile 2007, infatti, la IV Sezione della Corte di Cassazione ha annullato la condanna inflitta dal Tribunale di Modena ad una persona accusata di violazione dell’art. 187 CdS.

Il ragionamento dei giudici di legittimità si è orientato nel senso che il rinvenimento all’interno dell’auto condotta dall’imputato, il quale appariva ictu oculi in uno stato di alterazione da assunzione di stupefacenti (segni particolari: occhi arrossati e luci, eloquio sconnesso e forte stato di agitazione psico-motoria), di una siringa sporca di sangue non coagulato assieme ad una fialetta di soluzione fisiologica aperta, non costituisce elemento probatoriamente sufficiente per affermare la responsabilità dell’imputato.

L’indirizzo, peraltro, costante del S.C. è, infatti, nel senso di ritenere configurabile il reato di guida in stato di sottoposizione a sostanze stupefacenti solo quando lo stato di alterazione del conducente dell’auto venga desunto non da elementi sintomatici esterni, quanto piuttosto con il ricorso alla verifica prevista dalle modalità di cui all’art. 187 co. 2° e cioè attraverso “un esame su campioni di liquidi biologici, trattandosi di un accertamento che richiede conoscenze specialistiche in relazione alla individualizzazione ed alla quantificazione delle sostanze” (v. ex plurimis Cass. Sez. IV n. 20247 del 28.4.06).

Il principio così sancito, in linea di puro ed ipotetico diritto, non si presta a critiche di sorta, perché appare se non giusto, quanto meno ragionevole che la verifica di una condizione di alterazione psicologica o fisica del soggetto, laddove essa dipenda dall’assunzione di sostanze alcoliche o chimiche o dall’insieme combinato delle stesse, con effetti anche fortemente droganti, non deve essere lasciata ad una percezione soggettiva personale, che può rivelarsi fallace.

Dunque, si dovrebbe ritenere che sia indefettibile che la persona sospettata della violazione degli artt. 186 e 187 CdS, venga sottoposta con il rispetto di tutti i diritti che ne derivano agli accertamenti tecnici idonei ad appurare e certificare il suo reale stato soggettivo.

Ed, invece, no; non è così perché a tale controllo, come detto si può sfuggire.

Ma allora, delle due l’una o si stabilisce l’obbligatorietà, anche in forma coattiva della sottoposizione all’accertamento da parte del conducente che venga fermato dalla p.g., oppure tanto vale smettere di fare proclami di lotta preventiva agli incidenti stradali ed arrendersi, senza dignità, davanti a chi guidi in condizioni che dovrebbero, invece, precludergli in toto tale condotta.

La contraddizione che emerge, quindi, dal testo normativo ancorchè novellato, appare tanto palese, quanto incredibile è la circostanza che nessuno si accorga o scandalizzi di una scelta che certifica la pochezza giuridica di colui o coloro che hanno operato in tale senso.

A nulla (se non a suscitare ulteriore dibattito, il che non guasta, ma non basta), dunque, possono valere i tentativi di “giurisprudenza creativa” quale appare quello della Procura di Torino che – da quanto si legge – parrebbe orientata a procedere comunque, a livello penale anche nelle ipotesi di rifiuto di cui ai citati artt. 186 e 187 Cds .

Va, infatti, rilevato che anche ove si potesse pervenire ad una affermazione di responsabilità penale in primo grado, (esito sul quale ci si permette essere fortemente dubbiosi) ben difficilmente un simile giudizio potrebbe trovare conferma nei successivi gradi di giurisdizione penale, atteso il consolidato principio giurisprudenziale più sopra richiamato.

Non credo, comunque, sia compito della Magistratura quello di operare indebite supplenze, atte ed idonee a colmare gravi vuoti normativi, attraverso il ricorso a figure anomale di reato od a stravolgimenti dei principi della prova vigenti attualmente.

Pertinente alla finalità che il giudice persegue istituzionalmente è, piuttosto, la qualificata funzione di individuare, ponendole a nudo, queste marchiane carenze ed emettere provvedimenti che, anche certificando l’inammissibile impossibilità di sanzionare talune condotte, abbiano un positivo effetto choc e, dunque, si pongano quale informazione per i cittadini ed, al contempo, quale pungolo per una riforma che, ormai, non pare più procrastinabile.

Non si deve avere paura delle proteste dei cittadini, nell’applicazione della legge, quanto piuttosto si deve fare emergere le contraddizioni e le carenze della stessa.

Non è, infatti, tollerabile che sia la norma (proprio quella norma che pomposamente, quanto falsamente, con grande spolvero mediatico i politici hanno sostenuto come soluzione a tutti i problemi) a prevedere un inammissibile premio a favore di chi sia più furbo – e non si sottoponga ad alcuno dei controlli previsti dagli artt. 186 o 187 CdS -, a meno che lo scopo del legislatore non fosse proprio quello di confermare l’antico adagio “fatta la legge trovato l’inganno”.

*Avvocato del foro di Rimini


 




Carlo Alberto Zaina*

Venerdì, 24 Agosto 2007
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